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16 Dicembre 2021

Finché giustizia non sarà fatta

La Corte di Cassazione respinge i ricorsi contro la sentenza d’appello che aveva assolto Vitaly Markiv, il sergente italo-ucraino imputato per l’omicidio del fotoreporter Andrea Rocchelli. Mentre lui esce di scena, si cristallizza la verità storica ricostruita nel processo: la responsabilità dell’agguato è delle truppe di Kiev. E la famiglia di Andy chiede che non resti un crimine impunito
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Quando il presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione legge il dispositivo della sentenza, ad ascoltarlo, nell’aula Brancaccio, ci sono solo poche persone. Qualche cronista, alcuni membri della comunità ucraina. Tutti i ricorsi sottoposti al vaglio del collegio vengono dichiarati inammissibili. Così, nel pomeriggio del 9 dicembre, s’affievolisce la speranza di dare un nome a chi abbia causato la morte di Andrea Rocchelli e di assicurarlo alla giustizia: con questa decisione, diventa definitiva l’assoluzione stabilita nel novembre 2020 dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano a favore di Vitaly Markiv, il sergente della Guardia nazionale ucraina imputato per concorso nell’omicidio del fotoreporter.

L’ingresso della Suprema Corte di Cassazione, affacciato su piazza Cavour, a Roma

I giudici milanesi, infatti, avevano ritenuto che non si fosse dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio la colpevolezza del trentaduenne e avevano cancellato i 24 anni di reclusione inflittigli al termine del processo di primo grado. Per lui, dopo un lungo periodo di custodia cautelare, si erano riaperte le porte del carcere; per lo Stato ucraino, citato in giudizio come responsabile civile, era automaticamente caduto l’obbligo di risarcire la famiglia di Rocchelli, i suoi colleghi del collettivo fotografico Cesura e le rappresentanze sindacali dei giornalisti. Al contrario, convinta della solidità dell’impianto accusatorio, la procura generale del capoluogo lombardo aveva impugnato la sentenza e chiesto di celebrare un nuovo appello.

La Cassazione, appunto, non ha ammesso né questo ricorso né gli altri presentati dalle parti civili e allineati alle richieste del pubblico ministero; dalle motivazioni, che dovrà depositare entro le prossime tre settimane, si capirà quali siano gli errori di diritto o i vizi di forma che ha rilevato in tali atti e che l’hanno indotta a non esaminarne in modo approfondito i contenuti.

Occorre ricordare che lo stessoStato ucraino si era rivolto alla Suprema Corte, contestando la pronuncia d’appello: la formula con cui Markiv è stato assolto (cioè, manca o è insufficiente la prova che abbia commesso il reato) non intacca la ricostruzione complessiva dei fatti e non esclude l’eventualità che i suoi superiori gerarchici siano chiamati a rispondere dell’omicidio. Tuttavia, non essendoci una condanna a carico delle autorità di Kiev, i giudici romani hanno probabilmente considerato che le loro rimostranze fossero prive di fondamento e le hanno respinte.

Ecco, allora, che il quadro storico delineato sia nel primo sia nel secondo grado si cristallizza. Mentre il giovane sergente esce di scena, rimane scolpita nero su bianco la dinamica della morte di Rocchelli. Chiunque sostenga che quest’ultima resta un mistero, chiunque dica che è stato totalmente smontato “un teorema farlocco” elaborato a riguardo da inquirenti e investigatori italiani, chiunque cerchi di rimettere in circolazione la tesi del fuoco incrociato mente e sa di mentire. Un riassunto della vicenda è utile a spiegare perché.

Andrea “Andy” Rocchelli, a destra, e Andrej Mironov nell’aprile del 2014 (©Gabriele Micalizzi/Cesura)

Il 24 maggio 2014, Rocchelli si trovava nei pressi di Sloviansk, nella regione ucraina del Donbass, per svolgere il suo mestiere e per documentare le condizioni di vita della popolazione intrappolata nel conflitto tra separatisti filorussi e forze governative. Quel giorno, vicino alla ferrovia che segnava la linea del fronte, fu ucciso da granate di mortaio. Morì anche Andrej Mironov, attivista russo per i diritti umani e guida di Andrea. Rimase ferito il fotografo francese William Roguelon, che si muoveva con loro. A fare fuoco furono la Guardia nazionale e l’esercito ucraini: dalla collina del Karachun, dov’erano appostati a difesa di un’antenna televisiva, osservarono i movimenti dei tre, usando l’artiglieria leggera per allontanarli e poi quella pesante per colpirli.

Markiv era arruolato nelle truppe che monitoravano l’area e segnalavano l’avvicinarsi di individui sospetti, attendendo l’ordine di sparare con la mitragliatrice o fornendo le coordinate affinché i mortaisti riuscissero a centrare gli obiettivi. Un meccanismo che si attivò pure in quell’occasione. Non si sa, però, se lui prestasse servizio nell’orario e nel punto in cui scattò l’agguato. Le testimonianze rese da ufficiali e soldati a proposito delle attività della Guardia nazionale non erano utilizzabili nel processo. Trattandosi di ipotetici correi, sarebbe stato necessario sentirli con le tutele previste dal codice di procedura penale (l’avvertimento che si potrebbe finire sotto indagine, la presenza di un avvocato, la facoltà di non rispondere). Ciò non è avvenuto.

Sloviansk (Ucraina), maggio 2014. Bambini rifugiati in una cantina per proteggersi dai bombardamenti, durante il conflitto tra nazionalisti e separatisti filorussi (©Andy Rocchelli/Cesura)

L’intero schieramento, comunque, doveva rispettare le Convenzioni di Ginevra del 1949 per la protezione delle vittime di guerra: “I giornalisti che svolgono missioni professionali pericolose nelle zone del conflitto – recitano i trattati internazionali – saranno considerati come persone civili e saranno protetti in quanto tali”. Invece, l’intensità e la direzione precisa dei colpi sparati dalla fazione ucraina rivelano l’intenzione di eliminare Rocchelli, Mironov e Roguelon, sebbene fossero identificabili come fotoreporter. “L’attacco – specifica la sentenza ormai passata in giudicato – ha avuto luogo senza alcuna provocazione e offensiva né da parte loro né da parte dei filorussi. Si è trattato, quindi, di un ordine illegittimamente dato dai comandanti ed eseguito dai militari”.

Di qui, la conclusione: “Non può essere garantita l’immunità a uno Stato dinanzi a comportamenti di tale gravità da configurarsi quali crimini contro l’umanità che, in quanto lesivi di quei valori universali di rispetto della dignità umana, trascendono gli interessi delle singole comunità statali”.

Pavia, marzo 2020. Elisa Signori e Rino Rocchelli, i genitori di Andrea (foto ©Alessandro Sala/Cesura)

Perciò i genitori di Rocchelli, Elisa e Rino, esprimono indignazione per chi festeggi l’assoluzione come una vittoria: “Non ci sono né vinti né vincitori. Piuttosto c’è la sconfitta di una giustizia sostanziale, c’è la sconfitta di uno Stato, quello ucraino, che non sa riconoscere le proprie responsabilità. E temiamo che ne uscirebbe sconfitta la libertà di stampa, se l’impunità di chi uccide i giornalisti trovasse un’aberrante conferma anche nel caso di Andrea. Impiegheremo ogni strumento a disposizione per impedirlo”.

Sottolineano come le autorità di Kiev, “negligenti nelle indagini e verso la rogatoria rivolta loro dal nostro Paese sin dal 2015, reticenti, impegnate a depistare”, siano state “diligentissime ed efficienti nel mobilitare media e istituzioni per diffondere una narrazione patriottico-eroica dell’operato delle forze armate”. Come mai? “La ragione principale è che noi abbiamo ottenuto che lo Stato ucraino fosse coinvolto come responsabile civile, quale apice della catena di comando che ha determinato l’attacco”.

E l’asimmetria tra le diverse posizioni s’è allargata: “Se da un lato c’è uno Stato – continuano – dall’altro ci sono vittime civili. Ci siamo noi, la famiglia di chi è stato ucciso. Ma non si parla di una questione privata, bensì di un fenomeno del nostro tempo: la violenza contro i giornalisti”. Sono centinaia quelli che ogni anno, nel mondo, perdono la vita, subiscono aggressioni o vengono imprigionati: “Con il loro coraggio, rappresentano una spina nel fianco laddove si perpetrino persecuzioni e discriminazioni”.

Elisa e Rino, dunque, invocano per la prima volta un intervento diretto della politica: “Credevamo che le interferenze nel lavoro della magistratura fossero illegittime e che indirizzare il dibattito pubblico sul piano ideologico fosse fuorviante. Eppure, sin dall’inizio, questa storia è stata ostaggio della geopolitica, delle relazioni tra Ucraina, Russia e Italia. Ci domandiamo: nell’ambito della diplomazia italiana ed europea, entrambe per principio schierate a tutela dei diritti umani, c’è spazio per difendere l’incolumità dei giornalisti? C’è la volontà di perseguirne gli assassini?”.

La copertina de “La Volpe Scapigliata”, la serie podcast su Andrea “Andy” Rocchelli. Potete ascoltare i quattro episodi cliccando qui ed entrando nella sezione Podcast del mio sito “Altre/Storie”

In Francia, intanto, il polo specializzato nella lotta ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità del Tribunal de Grande Instance di Parigi ha acquisito il fascicolo e avviato le indagini sul ferimento di Roguelon. Dopo il risarcimento che gli è stato accordato in sede civile come superstite di atti terroristici, potrebbe partire un processo penale. E i Rocchelli sono pronti a costituirsi anche lì, qualora fosse possibile. In Italia, appare più impervia la strada verso il rinvio a giudizio di Bogdan Matkivskyi, l’ufficiale ucraino nei cui confronti è stata chiusa l’inchiesta-bis per concorso in omicidio.

*Anna Dichiarante ha studiato Giurisprudenza e giornalismo. Ha iniziato come collaboratrice de “L’Espresso” per poi arrivare a “Repubblica” (e supplementi). Con Mario Calabresi ha scritto il podcast “La Volpe Scapigliata”, dedicato ad Andrea Rocchelli, e altri articoli per questa newsletter

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