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12 Agosto 2021

E poi uno guarì

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«Cominciammo a lavorare ai primi di agosto, per la precisione il 7, il reparto maternità era finalmente finito e quella mattina temevamo che non venisse nessuno. Invece in poche ore si formò una coda di mamme con i bambini in braccio, erano tantissimi, ma non fu una buona notizia. La prima settimana fu disperante: I bimbi arrivavano in condizioni talmente critiche che la maggior parte delle volte non c’era più niente da fare. La cosa più terribile è che avevano malattie curabili, come le gastroenteriti o la malaria».

Mamme in fila per entrare nel reparto maternità dell’ospedale di Matany
Le mamme con i bambini in braccio davanti ai letti dell’ospedale

«Ma dopo una settimana, era Ferragosto, un bambino con la malaria grave a cui avevamo fatto una trasfusione diede segni di miglioramento. Nei casi più gravi toglievamo un po’ del sangue infetto dall’arteria femorale e poi facevamo una piccola trasfusione. Il sangue trasfuso era quasi sempre il mio, che avevo lo zero positivo. Lo donai anche a lui, e quando guarì cominciammo a vedere la luce. Avevo appena compiuto 28 anni, avevo molta incoscienza ma anche tante speranze».
Sono passati esattamente cinquant’anni da quella settimana, quella ragazza che aveva i capelli rossi e lunghi si chiama Mirella Capra e mi parla dalla casa dove vive oggi, in Val Brembana. Era arrivata in Africa da un anno, insieme a suo marito Gigi Rho, che di anni ne aveva ancora 26. Si erano laureati a Milano, lui chirurgo e lei pediatra e poi avevano fatto una scelta radicale: essere i primi due medici di un nuovo piccolo ospedale in Karamoja, nella parte Nordest dell’Uganda, in un villaggio chiamato Matany.

Mirella Capra visita un paziente

Questo ospedale era stato attrezzato grazie alla loro lista di nozze, la loro storia (che ho raccontato nel libro “Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa”) la conosco fin da quando ero bambino perché Mirella è la sorella maggiore di mia madre. Oggi Gigi non c’è più ma la loro lista di nozze continua a dare i suoi frutti. Nel foglio che avevano consegnato agli amici e ai parenti era indicato tutto l’occorrente: 22 letti per adulti, 9 lettini per bambini, culle per neonati, lenzuola, elettrocardiografo, microscopio, lettino operatorio, lampada operatoria, ferri chirurgici.
Le conseguenze sono visibili e chiare: il Saint Kizito Hospital di Matany adesso ha 284 posti letto, 7 medici, 65 infermieri, 8 ostetriche, 4 fisioterapisti, si fanno duemila operazioni chirurgiche l’anno, diecimila ricoveri e nascono in sicurezza 1500 bambini.

La copertina del libro “Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa” in cui ho raccontato la storia di Mirella e Gigi 

Non le avevo mai chiesto come furono quei primi giorni di mezzo secolo fa, i più intensi e forse più importanti della sua vita di medico. «Ero sconvolta, nessuna università o scuola di specializzazione ti prepara a veder morire decine di bambini in pochi giorni. Capimmo subito che succedeva perché ci consideravano l’ultima spiaggia, l’ultimo tentativo, la magia bianca che tutto può. Scoprirono presto che non eravamo capaci di fare miracoli e rimasero molto delusi. Arrabbiati. “Ma, allora, se non funziona la vostra magia cosa siete venuti a fare?”, ci chiedevano».

Il primo reparto dell’ospedale con il dispensario prima dell’apertura

«Anche noi ci chiedevamo che cosa fare. Dovevamo far capire che molto dipendeva da loro e non da noi: che non dovevano aspettare così tanto a venire in ospedale, che dovevano cambiare alcune abitudini, rispettare regole igieniche. Una situazione molto complicata: c’era un muro di incomprensione». Gigi e Mirella capirono allora che si doveva lavorare fuori dall’ospedale, che dovevano spogliarsi dei panni del medico che visita e cura, per puntare a un obiettivo più grande. «Gigi ebbe l’idea, vincente, di formare dei ragazzi, educatori sanitari che dovevano venire dai villaggi. Iniziammo subito a far fare loro un periodo di formazione in ospedale, ma anche noi imparavamo da loro: ci siamo fatti raccontare le credenze popolari, la vita quotidiana e le tradizioni. Noi a loro insegnavamo nozioni di igiene, come dare le terapie, come fare prevenzione e l’importanza dell’acqua pulita, poi anche a fare le vaccinazioni. Ma il patto è che loro avrebbero continuato a vivere nei villaggi».

Gigi Rho mentre visita una mamma e il suo bambino

«Alla fine del corso gli abbiamo dato delle biciclette che ci avevamo mandato gli amici del gruppo di appoggio, compagni di scuola e università che continuano a sostenere l’ospedale anche ora. Felici e orgogliosissimi sono tornati ai villaggi. Li chiamavano “i dottori con le biciclette”. Ma ci sono volute parecchie settimane per vedere che le cose stavano cambiando, prima cominciarono a sopravvivere i bambini con la dissenteria, bastava idratarli per tempo, poi una sera si presentò una mamma e mi disse: “Ho portato il mio bambino perché ha la tubercolosi”. Me lo mostrò ma appariva in buona salute, allora le chiesi come facesse a dire che aveva la tubercolosi. Lei rispose tranquilla: “Non lo dico io, me l’ha detto il dottore della bicicletta”. Lo visitai e aveva ragione. La storia aveva preso un’altra direzione».

Gli operatori sanitari distribuiscono in un villaggio una terapia antitubercolare

«Siamo rimasti sei anni e di giorni tragici ce ne sono stati tanti, così quelli dello scoraggiamento. Ricordo una data: il 10 gennaio del 1972, lo ricordo perché era il mio anniversario di matrimonio e mi ero appena accorta di essere incinta. Era venuto a trovarmi mio padre e quella mattina alle 10 erano già morti 4 bambini: Noi non eravamo capaci di sopportarlo e non lo siamo mai diventati».
Le chiedo quale sia stata la più grande soddisfazione. «La grande gioia è sapere che Peter Lochoro, un bambino nato in un villaggio poco lontano dall’ospedale, è diventato il responsabile del “Cuamm Medici con l’Africa” per l’Uganda. Andando a scuola passava davanti all’ospedale, metteva dentro la testa per curiosare e, così, aveva conosciuto Gigi. E pensare che fu mandato a scuola solo perché alla sua famiglia era stato razziato il bestiame e non poteva fare il pastore».

Gigi e Mirella che visitano un paziente

Oggi Mirella ha 78 anni, dopo l’Africa non è tornata a Milano ma ha scelto di fare la pediatra nell’Alta Val Brembana, insieme a Gigi che era medico condotto, hanno avuto cinque figli, uno è sepolto a Matany, una – Anna – ha seguito le loro tracce e ha lavorato a lungo in Africa. Prima di salutarla le chiedo se questa dell’Africa sia stata la cosa più bella che ha fatto. Resta un po’ in silenzio e poi mi risponde: «Non è la cosa più bella che ho fatto ma la cosa più bella che ho ricevuto, l’esperienza che mi ha dato di più».

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