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20 Maggio 2021

Finestre di vita

Nel suo ultimo libro “Finestre sull’altrove, 60 vedute per 60 rifugiati”, edito da Il Saggiatore, l’architetto Matteo Pericoli, attraverso i suoi disegni, racconta cosa vuol dire poter tornare ad affacciarsi a guardare il cielo per chi è in esilio
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Ognuno di noi, nella sua casa, ha la “sua” finestra. Quella che apre al mattino, all’alba di un nuovo giorno, o chiude la sera quando finisce un giorno. Quella che attraversiamo con l’automatismo di un gesto istintivo parlando al telefono o mentre cerchiamo le parole per rispondere a una mail. Di lì vediamo altre finestre, di lì ci immaginiamo altre vite, pensiamo di guardare nel mondo. In realtà guardiamo dentro noi stessi, in un “altrove” che ci appartiene, in quegli oggetti c’è il codice della nostra memoria, ci sono le linee mobili del nostro panorama interiore.

La finestra di Idil Eser, Norvegia © Matteo Pericoli

Per un rifugiato costretto a vivere lontano dal proprio paese, quella finestra diventa un’altra cosa, è il diaframma attraverso cui spazio e tempo si fondono in una dimensione diversa. Leggete cosa scrive Idil Eser, attivista turca per i diritti umani, ex direttrice di Amnesty International Turchia: “Quando guardo fuori dalla mia finestra in Norvegia, vedo la natura in tutta la sua gloria. Durante i miei oltre tre mesi di detenzione, l’unica cosa che riuscivo a vedere dalla finestra della cella era l’alto muro di cemento che circondava il cortile interno del carcere. Là ai prigionieri non è permesso avere una vista ininterrotta del cielo, l’unica traccia di natura ai loro occhi. In cima al muro c’erano metri e metri di rete da pollaio e i prigionieri potevano considerarsi fortunati se riuscivano a vedere qualche uccello in volo di tanto in tanto”. 

Idil Eser è una delle sessanta voci di rifugiati che animano un progetto di Art for Amnesty a sostegno di Amnesty International dove si incrociano parole e immagini, le testimonianze di esseri umani costretti alla fuga dal proprio paese e i disegni di un artista. Matteo Pericoli, architetto e disegnatore, ha rappresentato ciascuno di loro attraverso la finestra dalla quale oggi si affacciano sul mondo nel loro luogo di esilio. Ne è nato un libro, “Finestre sull’altrove. 60 vedute per 60 rifugiati”, che esce in questi giorni dal Saggiatore (partner del progetto) e una mostra che si apre il 26 maggio alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino. Un’edizione a tiratura limitata in quattro lingue viene pubblicata con il sostegno di Lavazza Group. 

La finestra di Ahmed Ahjam, Montevideo – Uruguay © Matteo Pericoli

Le finestre non sono solo il pretesto per una rappresentazione artistica, ma una rivelazione individuale. Ahmed Ahjam, siriano di Aleppo, catturato dagli americani in Pakistan nel 2002, detenuto per dodici anni a Guantánamo senza mai un processo, oggi rifugiato in Uruguay dove gestisce una pasticceria araba: “Attraverso la mia finestra guardo la città, le persone, la natura, la luna, le stelle, l’orizzonte, il mio futuro e il mio presente, pieno di sogni che mi spingono ad andare avanti. Ecco la mia finestra, specchio della mia anima”.

Il progetto è nato dall’incontro tra Bill Shipsey che fondò Art for Amnesty nel 2002 e Matteo Pericoli che già aveva usato la chiave di narrazione delle finestre in altre due serie, una sul mondo, l’altra su New York. In questa c’è un salto di impegno umanitario e testimonianza civile, pacata, prosciugata da ogni retorica, ridotta all’essenziale nei disegni tratteggiati con una penna a punta fine Pigment Liner della Staedtler di 0,05 millimetri. Pericoli ha lavorato sulle tante fotografie inviate dai rifugiati. 

La finestra di Jewher Ilham, Indiana – Usa © Matteo Pericoli

Jewher Ilham, figlia di Ilham Tohti, uno studioso impegnato al dialogo fra il popolo uiguro e i cinesi di etnia han, attualmente in carcere. Fu arrestato nel 2013 all’aeroporto di Pechino mentre si stava imbarcando per gli Stati Uniti con la figlia, che vive oggi in Indiana: “Che finestra grande e che vista bellissima, pensavo mentre tenevo fra le mani una tazza di tè tradizionale uiguro e ne sentivo il vapore caldo sul viso. Chissà se anche lui sta guardando da una finestra come me. Cosa potrebbe vedere, fuori? No, nulla, non può. È ovvio, il governo cinese non lo tratterebbe così bene da tenerlo prigioniero in una cella con la finestra. È ovvio, l’unica vista che ha davanti ogni giorno è un muro grigio. Una vista che è la stessa ormai da sette anni”.

La finestra di Nadezhda Kutepova, Parigi – Francia © Matteo Pericoli

Nadezhda Kutepova, ambientalista, sociologa e avvocata nata a Ozërsk, una delle “città chiuse” della Russia, fondatrice di Planeta Nadezhd (“il pianeta delle speranze”), nella regione di Čeljabinsk, profondamente colpita dall’inquinamento radioattivo. È fuggita a Parigi nel 2015 dopo aver ricevuto infinite minacce di morte. “La vista dalla mia finestra è piuttosto cupa. È limitata. Mi soffoca, mi agita. Niente in questa vista mi ricorda che mi trovo in una delle città più libere del mondo. Pareti color porridge e finestre con le inferriate dal lato opposto. Nemmeno un filo d’erba o un uccello… Nella mia vita precedente, fuori dalla finestra c’erano laghi e foreste e montagne. Era una città chiusa ma la mia anima era libera”. 

La finestra di Sarah Mardini, Berlino – Germania © Matteo Pericoli

Sarah Mardini, nuotatrice professionista siriana: “Mentre guardo fuori dalla finestra del mio appartamento a Berlino cerco di dimenticare che la mia è solo una libertà su cauzione. Nel 2015 fuggii dalla Siria con mia sorella su un gommone minuscolo e sovraffollato insieme ad altri diciotto rifugiati. Mentre attraversavamo il Mediterraneo la barca iniziò ad affondare. Mia sorella, due uomini e io saltammo in acqua e trainammo il gommone a riva. Un mese dopo riuscimmo a raggiungere Berlino e la nostra richiesta di asilo fu accettata. La storia della nostra drammatica traversata fece il giro del mondo e fummo accolte come eroine. La mia storia, però, non si è fermata lì… Nel 2016 tornai a Lesbo come volontaria in una squadra di soccorso in mare per una ONG greca. Due settimane divennero due anni e mezzo. Nell’agosto del 2018 fui arrestata dalla polizia greca con l’accusa di «spionaggio», «riciclaggio di denaro» e «traffico di esseri umani». Dopo tre mesi e mezzo di carcere fui rilasciata su cauzione”.

Scrive nell’introduzione lo scrittore irlandese Colum McCann: “Non c’è finestra più misteriosa di quella che dà sul luogo al quale non possiamo tornare”. Inevitabilmente le testimonianze hanno la forza della denuncia: “Fuggire da un pericolo è un comportamento innato dell’essere umano – dice Gianni Rufini, direttore di Amnesty Italia -. Eppure oggi viene ridefinito come un “problema”. I cuori della politica del nostro paese, salvo rare eccezioni, non provano dolore perché non vedono l’orrore dei campi di detenzione della Libia”. 
In queste piccole storie c’è la storia del mondo in cui viviamo, leggerle e osservare quelle finestre è un modo per mettersi al corrente con i tempi.   


*Cesare Martinetti (Torino, 1954), giornalista dal 1976: “Gazzetta del Popolo”, Ansa, “la Repubblica”. A “La Stampa” dal 1986. Inviato, corrispondente da Mosca, Bruxelles e Parigi, vicedirettore. Due libri, “Il padrino di Mosca” (1995) e “L’autunno francese” (2007), entrambi editi da Feltrinelli.

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