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2 Dicembre 2021

Anche loro hanno combattuto

La retorica che usiamo per raccontare la malattia aggiunge dolore a dolore: chi non ce la fa, sembra non abbia lottato abbastanza. Ce lo spiega bene in un libro Marco Dell’Acqua, sopravvissuto a un gravissimo tumore, che dice: «Non sono migliore, ho solo avuto culo».
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Troppe volte leggiamo o ascoltiamo frasi enfatiche che raccontano di campioni che hanno sconfitto il cancro. Sì, sconfitto. Si parla di persone capaci di battere la malattia, di vincere la battaglia. Ogni volta sento un disagio profondissimo di fronte a questa rappresentazione falsa e retorica. Basterebbe dire che sono guariti, che ce l’hanno fatta, raccontare cosa hanno passato, cosa hanno imparato, a chi sono grati. Invece la macchina del sensazionalismo e del luogo comune sceglie l’immagine dell’eroe che si è battuto come un leone e ha avuto la meglio sul grande nemico. Penso allora a quelli che invece non ce l’hanno fatta e mi sembrano sconfitti due volte, dalla malattia e dall’idea che loro sono dei perdenti.

Il tagliando dello storico concerto di Bob Marley and The Wailers a San Siro del 27 giugno 1980, una delle tappe iniziali della storia che voglio raccontarvi

Anche le persone che muoiono di tumore amano la vita e ci provano fino alla fine. Si battono, ma vengono sopraffatti. Perché hanno incontrato una malattia che non lasciava speranza, o di cui si sono accorti troppo tardi, o semplicemente hanno avuto meno fortuna con ospedali, medici e terapie. 
Penso a tutti coloro che se ne sono andati, alle loro famiglie, agli amici, e questa retorica della guerra vinta mi suona davvero terribile.
Così quando mi è capitato tra le mani il libro di un uomo poco più grande di me che raccontava la sua esperienza di malato di cancro, l’ho aperto con circospezione. Invece nella prefazione ho trovato questa frase: «Chi sopravvive non è un vincente, uno con più forza o più resistenza, come una certa retorica vorrebbe far credere, ma solo uno con più culo. La differenza spesso, purtroppo, è tutta lì». 

Ho cominciato a leggere il libro e senza accorgermene sono arrivato fino in fondo, percorrendo la vita di un ragazzo del 1966, che diventa grande nel 1980 al concerto di Bob Marley a San Siro, che fa la maturità nell’anno di un altro grande concerto, il Live Aid, che scandisce i momenti della sua esistenza sempre con una canzone o con una partita del Milan. Finché, a 38 anni, sposato da poco, appena arrivato in una nuova e luminosa casa, mentre mette il casco per andare in Vespa nella libreria in cui lavora, si accorge di avere un bozzo in testa. Seguono visite e controlli, un’operazione al cervello e la scoperta di avere un mieloma multiplo, un cancro del sangue, allo stadio più grave. Le ricerche su Internet gli dicono che le percentuali di sopravvivenza a cinque anni sono basse. Il libro è un diario del tempo degli ospedali, degli incontri, della fiducia, della speranza e del dolore. E della fortuna di incontrare cure sperimentali e di trovare negli Stati Uniti una donatrice di midollo osseo compatibile. 
Ma prima dell’operazione, nel momento più difficile, quando è sfinito e non riesce più a fare nulla e a sollevare niente, quest’uomo si trova tra le braccia un fagotto di 3.770 grammi, “il peso esatto della felicità”: suo figlio Lorenzo. E ogni volta che ha paura, che sente salire lo sconforto, mette il naso sulla sua testa e “annusa il suo profumo”.

Per questo il libro si intitola “Sono nato dopo mio figlio” e recita: «Posso dire di essere venuto al mondo dopo di lui, che da subito ho considerato una specie di fratello maggiore, capace di guidarmi nella vita di tutti i giorni».

Il libro di Marco Dell’Acqua, “Sono nato dopo mio figlio” edito da Laurana

Non conoscevo l’autore, che si chiama Marco Dell’Acqua, e non l’ho mai incontrato, il suo libro mi è capitato tra le mani perché me lo ha portato mio fratello Paolo, dicendomi che gli sembrava bello. Aveva ragione. 
La parte che ho amato di più non è tanto l’esito finale felice e fortunato – Marco ha da poco superato il traguardo dei 15 anni senza recidive, ha potuto vedere Lorenzo andare a scuola e scegliere con lui il liceo – ma la descrizione delle persone che ha incontrato sul cammino. «La sala d’aspetto è un crocevia di vite vissute, perdute, riacciuffate. È un luogo geometrico dove i segmenti convergono, dove tutti, ma proprio tutti, sanno cosa sia la sofferenza. Ma è anche il posto dove si consolidano le amicizie, dove la generosità si siede insieme agli altri, dove si condividono le proprie storie: quelle buone e quelle terribili».

C’è una parola chiave che ricorre: gratitudine. Per i medici, gli infermieri, la donatrice, sua moglie, gli amici, il sistema sanitario pubblico che si è occupato di tutto e verso la buona sorte. Gratitudine è la parola più bella, nemica dell’arroganza e dell’onnipotenza.
«Avercela fatta non è un merito: non sono stato bravo, non sono stato più motivato degli altri, non ho un carattere più forte. Sono una persona normale e molto fortunata perché sono riuscito ad essere persistente, perseverante e resistente, ma non più di altri nella mia stessa condizione: non è una gara».

Questa storia mi ha fatto pensare agli autunni delle nostre vite e a questa poesia che scrisse il mio papà adottivo Tonino Milite: “Ancora e ancora fiorirà l’albero  /  questo soltanto voglio sapere  / difronte al finale sommesso splendore  /  di tutte queste foglie cadenti”

Parlare di sofferenza non è il massimo in questo tempo faticoso, ma dare un senso alla sofferenza è fondamentale e come scrive Marco Dell’Acqua: «Soffrire non piace a nessuno, ma chi non è capace di soffrire difficilmente può farcela, nella malattia e nella vita quotidiana. Il lessico è stato inquinato da decenni di uso manipolato delle parole, di inseguimento dell’effimero, di meraviglia per l’inutile. Ma quando si scende, anche in senso fisico, nella profondità della malattia, ci si ritrova diversi: si comincia a vedere il mondo da un punto di vista inedito e stupefacente. Si guardano le cose con gli occhi di chi non sa se riuscirà a uscire dall’inferno, a rivedere le stelle. Si pensa a sé stessi e si vedono gli altri, a cominciare dai più deboli e dai più fragili: gli anziani e i bambini, all’Istituto ce ne sono tanti e tutti lottano. Molti ce la fanno, qualcuno no: ecco, è a quel qualcuno che bisogna pensare per capire che non si è immortali e che bisogna essere umili di fronte agli altri».

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