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29 Ottobre 2020

Storie del tempo rubato

Per colpa del virus stiamo rinunciando a progetti, occasioni, rapporti. Insomma, a parte delle nostre vite. Mi sono tornati in mente alcuni esempi di persone che hanno fatto pace con i momenti e le opportunità perse. Dai miei nonni fino ai rifugiati che ho incontrato negli Stati Uniti
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Viviamo con la sensazione di un tempo perduto, rubato dal virus. Ragazzi che si sono laureati di fronte al computer, nozze rinviate, lavori congelati, occasioni sfumate. Chi si allenava da anni per una gara, per debuttare in teatro, per fare un concorso o per essere assunto e ora aspetta seduto su un divano. Chi aveva messo da parte i soldi per un viaggio, per aprire un negozio, per una nuova avventura e ora ha chiuso lo zaino nell’armadio e non ha mai acceso le luci della vetrina. Chi ci restituirà questo tempo e queste occasioni? Non è la prima volta che accade. Nella mia memoria ho trovato tre storie, che ho incontrato, che parlano di generazioni a cui all’improvviso sono stati tolti speranze e progetti. E di come, un giorno hanno fatto pace con il tempo rubato.

I miei nonni, Mario e Maria Capra, in partenza per il viaggio di nozze a Roma

I miei nonni, Mario Capra e Maria Tessa, si sposarono a Torino il 20 gennaio 1940, in viaggio di nozze andarono in treno a Roma per tre giorni. Cinque mesi dopo, mentre stavano arredando la loro casa e lui aveva appena trovato lavoro, Mario partì per la guerra. Venne mandato nei Balcani come ufficiale responsabile di un ospedale militare, tornò a casa solo per due brevi licenze, nel dicembre 1940 e nel giugno 1942. Nove mesi dopo le licenze nacquero i loro primi due figli, Carlo e Mirella. 

Pranzo durante la licenza del 1942, a Campiglione Fenile, dov’erano sfollati i genitori di Mario. Maria è seduta a capotavola, a sinistra, Mario le è accanto

Dopo l’8 settembre – la firma dell’armistizio con gli anglo-americani – Mario finì in un campo di prigionia tedesco prima in Polonia e poi in Germania, dopo un viaggio di dieci giorni nei vagoni merci. La nonna non ebbe più notizie di lui dal gennaio 1944. L’ultimo segno fu una cartolina della Croce Rossa su cui aveva apposto la sua firma, per trasmettere allegria e un po’ di speranza aveva scritto: “Mariolino”. Ma sopravvisse mangiando l’erba del campo e riuscì a tornare a casa.

Quando arrivò a Torino trovò la casa in macerie, distrutta dai bombardamenti. Pensò di aver perso la famiglia, poi scoprì da un amico che si erano salvati ed erano sfollati in campagna, a Cavour. Si fece prestare una bicicletta e arrivò, del tutto inatteso, nella cascina di Sant’Anna dove Maria si era rifugiata con i bambini e i suoi genitori. Era affamato, scheletrico ma con la pancia gonfia. La figlia che non aveva mai visto già camminava. Maria riuscì a convincere i vicini a tirare il collo a un coniglio, la carne era rarissima ma l’occasione unica. Tra un abbraccio e l’altro Mario non si accorse nemmeno di avere mangiato da solo tutta la padella del coniglio. Quella sera venne concepito il loro terzo figlio, Leopoldo, nella soffitta della cascina tra i topi che correvano sulle travi.

Nel 1982, quando avevano quasi 68 anni e ormai sette figli grandi, decisero di affittare un minuscolo appartamento sul lago di Lugano, lo chiamarono “Il nido”, e decisero che ci sarebbero andati soltanto loro, ogni volta che avevano un fine settimana libero. Senza figli, senza nipoti e senza lavoro. Nel 1987, esattamente cinque anni dopo, Mario morì per un ictus. Maria, che sarebbe vissuta per altri 22 anni, si è sempre consolata così: «Quei cinque anni che la guerra ci aveva portato via alla fine ce li siamo ripresi, solo noi due, come fidanzatini»

Uno scatto di “Refugee Hotel”, foto e testimonianze che documentano l’arrivo dei rifugiati negli Usa e poi negli hotel in cui vengono alloggiati per i primi giorni (©Gabriele Stabile)

Tredici anni fa, era l’inverno del 2007, passai alcune notti al Liberty Airport, a Newark nel New Jersey, per raccontare le storie dei rifugiati che ogni notte arrivavano da tutto il mondo negli Stati Uniti. L’America ne accoglieva 70mila ogni anno. Incontrai iraniani, afgani, sudanesi, somali, ruandesi. Ognuno di loro aveva storie tragiche alle spalle, vite completamente sradicate. Imparai a conoscerli, dovevo scrivere un lungo racconto ma mi misi ad aiutarli a capire cosa avrebbero dovuto fare e in che posto erano finiti. Il ricordo più bello è quello di una famiglia del Burundi.

Erano in sei, i genitori avevano 28 anni, dei quattro figli il più piccolo, Jean-Luc detto Lik, aveva solo nove mesi. Indossavano tutti la stessa felpa con la scritta di “Usrp”: “United States Refugee Program”. Non avevano nessuna valigia, nemmeno una piccola borsa o un sacchetto, solo una busta che racchiudeva le loro vite. Venivano da un campo profughi della Tanzania, dove avevano passato gli ultimi sei anni, ed erano destinati a Dayton in Ohio.

La famiglia di rifugiati del Burundi incontrata al Liberty Airport di Newark, nel New Jersey (foto ©Gabriele Stabile)

I bambini erano sfiniti dalle emozioni, non erano mai stati su un aereo e neppure su una scala mobile. Il padre, Jean-Claude, parlava a voce bassa, in francese, mi raccontò che erano scappati nel 2001 quando Meshack aveva due anni e Samuel era appena nato: «Volevano uccidermi, allora ho preso Pascazia e di notte siamo fuggiti. Mia madre era Hutu, mio padre Tutsi, sono morti tutti e due: prima hanno ucciso lui, il turno di lei è arrivato un anno dopo. Io non ero niente, stavo a metà, non appartenevo a nessuno. Ma una sera mi è arrivata la voce che correva nel villaggio: è il tuo turno».

Partirono con il buio verso la Tanzania, abbandonando tutto. I figli sono cresciuti nella bolgia del campo per rifugiati, sei anni ad attendere di riprendere una vita. Quando li ho incontrati non avevano più nulla, neanche un oggetto o un vestito. Di fronte al mio stupore Jean-Claude mi ha dato una lezione indimenticabile: «Abbiamo la vita, e adesso anche la possibilità di viverla».

Isola di Simi (Grecia), estate 2015. Da questo gommone sono appena sbarcati 40 profughi siriani (foto di Mario Calabresi)

È l’estate del 2015, sono in vacanza in Grecia, sull’isola di Simi. Mi alzo presto e dalla finestra vedo un grande gommone carico di persone con i giubbotti di salvataggio arancioni. Mi stropiccio gli occhi, è l’alba e la luce è ancora debole. Ci metto un attimo a capire che sono profughi che arrivano dalla vicina costa turca. Corro al porto a vedere. Sono siriani. Siamo all’inizio della grande migrazione attraverso i Balcani, verso la Germania e la Svezia, che porterà un milione di rifugiati nel cuore dell’Europa.

Malak, sei anni, è sbarcata dal gommone sull’isola di Simi con il padre. Hanno solo due zainetti, in cui portano tutto quello che possiedono (foto di Mario Calabresi)

Quella mattina incontrai una bambina che mi fece capire molte cose, sono andato a ritrovare il pezzo che scrissi allora per “La Stampa”.

Malak ha sei anni, uno sguardo vispo e profondo, due fermacapelli rosa, un cappellino arancione con un orsetto sopra la visiera, una magliettina gialla coi bordini dorati e dei leggings con i fiori. Anche lo zainetto che porta sulle spalle è a fiori. Cammina lungo il porto dell’isola di Simi, in Grecia, per mano al suo papà. Non mi sarei mai fermato a guardarla, è uguale alle mie figlie, alle loro compagne di classe e a tutte le bambine che possiamo incontrare in questi giorni di vacanza sul lungomare di Alassio, nella piazza di Gressoney o tra i monumenti a Firenze. Ma Malak non è una turista e non è nemmeno in vacanza: è appena scesa da un grosso gommone nero in cui stava pigiata insieme ad altre 39 persone. Senza dire una parola si è tolta il giubbottino salvagente arancione, si è messa lo zainetto sulle spalle e poi ha chiesto al papà di aiutarla a sistemare bene le mollette tra i capelli.

Malak andava a scuola a Damasco e ora è un numero o forse solo una goccia. Sullo zainetto del papà ci sono le etichette di viaggi in aereo, era un professionista, aveva una vita agiata, faceva parte della buona borghesia. Ora tutto quello che hanno è contenuto in quei due zainetti. Sono soli, con loro non c’è la mamma e non ho il coraggio di chiedere che fine abbia fatto. Sono partiti di notte, hanno camminato per otto giorni, hanno attraversato le montagne e il confine tra Siria e Turchia, arrivando fino al mare.

Della loro vita non esiste più nulla, tutto è stato spazzato via, non congelato ma cancellato. Il papà le ha appena comprato un braccialetto dal tabaccaio e glielo sta legando al polso, cerca di dare alla figlia il senso di normalità anche se stanno facendo un passo senza ritorno, anche se non sanno che cosa li aspetta. Malak si mette a disegnare su un album di fumetti usando una scalinata come banco. Quel braccialettino di corda colorata mi sembra il primo filo di una nuova vita.

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