Nikita Zenkov non immaginava che mettere la retro e girare il volante potesse essere una delle cose più difficili che gli sarebbe capitato di fare nella vita. Tecnicamente un’inversione di marcia – ne aveva fatte migliaia fino a quel momento – ma questa volta nello specchietto retrovisore c’era sua moglie Oksana con in braccio i loro figli David e Kira. E più accelerava, allontanandosi dal posto di frontiera vicino a cui li aveva accompagnati, più il riflesso della sua famiglia si faceva minuscolo. Per ogni donna e bambino di quei due milioni che hanno attraversato i confini ucraini nelle ultime due settimane, c’è un uomo – un compagno, un padre, un fratello – che è rimasto in patria, e Nikita Zenkov è uno di questi.
Lo aveva deciso subito di rimanere, ben prima che per ogni maschio tra i 18 e i 60 anni venisse istituito il divieto di lasciare il paese. «Sono un militare, piloto gli aerei, ho già combattuto nel Donbass nel 2014, non sarei mai potuto andare via proprio adesso. Ma allora non avevo i gemellini: sono piccoli, hanno solo sette mesi. Così ho pensato fosse giusto decidere insieme a Oksana; è stata una conversazione breve, mi ha detto: la scelta è tua. Non c’è stato bisogno di aggiungere altro, lei capiva». Lui e Oksana si sono conosciuti a Donetsk nel 2016, dove lei era dislocata come infermiera militare: lì dove lo scontro con la Russia era cominciato, iniziava anche il loro amore.
Parlo con Nikita con una chiamata su Signal in un giorno strano, il primo senza la sua famiglia e l’ultimo di libertà: l’indomani partirà per il fronte. Mi racconta che ha già ritirato l’equipaggiamento, la mattina passerà un mezzo a prelevare lui e tutti gli altri del suo gruppo, alcuni sono militari, altri civili, gente che la guerra «l’ha solo vista al cinema», ma che sentono di «dover fare la loro parte». «I primi giorni dell’invasione tanti volevano scappare all’estero, qualcuno dei miei amici l’ha anche fatto, io non lo condanno: ognuno fa ciò che si sente. Ma con il passare dei giorni il sentimento è cambiato, la gente ha capito che ogni uomo in più che è rimasto può fare la differenza. Questa guerra la vinceremo, non c’è altra scelta. Perché questo succeda io sono pronto a morire».
Nikita mi spiega che essere un soldato significa anche questo: gestire le emozioni, rimanere lucidi, sapere prendere le decisioni migliori nel minor tempo possibile. Come quella di far partire Oksana e i bambini, che adesso sono in Italia, dalla nonna. «Sono passate solo 24 ore e mi mancano già tantissimo. Abbiamo fatto una videochiamata – come faremmo senza Internet? – ma non è la stessa cosa. Lasciarli andare è stato molto difficile. Continuo a pensare quando ci siamo salutati, gli abbracci, i baci. “Vivo per voi” è stata l’ultima cosa che gli ho detto. E per loro dovrò rimanere vivo davvero, perché voglio vederli crescere».
Si è messo al collo una catenina con una croce, in una tasca della mimetica ha infilato l’immaginetta di una madonna, nell’altra – «quella sopra il cuore» – una foto di loro quattro insieme. In fondo alla sacca ci sono due tutine di David e Kira.
* giornalista e autrice