«A Pechino, sotto casa mia, c’era un piccolo ristorante di ravioli. Lo gestiva una coppia di Shanghai e quella era anche la loro casa: dietro la cucina c’era una piccola stanzetta con un letto e un minuscolo bagno. Nella sala dove c’erano una decina di coperti, appesa al muro c’era una mappa. La Cina era al centro, ma osservandola ho notato una cosa ovvia: quanto fosse vicina al Vietnam, al Giappone, alle Coree, alla Cambogia. Una banale osservazione che mi ha procurato una immediata eccitazione: da quel giorno, oltre a provare a girare più possibile in Cina, ho cercato di viaggiare in Asia più che potevo. Ogni punto di quella cartina diventava un posto dove poter vivere: Hanoi, Tokyo, Phon Penh, Bangkok, Hong Kong, ogni luogo mi conquistava. Da un lato mi sentivo “asiatico”, abituato ormai a clima, caoticità, abitudini, usanze. Dall’altro era sempre tutto nuovo, inusuale. Spesso era anche faticoso: adattarsi, comprendere alcune dinamiche sociali, cittadine, studiare anche, perché ogni paese asiatico ha una storia sua, antica, caotica, molto spesso drammatica. Ho girato più che ho potuto, ho domandato più che ho potuto, ho studiato più che ho potuto. E penso di non avere ancora finito questo percorso».
Il giornalista che mangiava quasi ogni sera in quel piccolo ristorante, scegliendo sempre i ravioli brasati di maiale, si chiama Simone Pieranni e la sua voce, con un leggero accento genovese, mi tiene compagnia ogni sabato mattina, quando vado a fare la spesa. Appena esco di casa mi metto le cuffie e lui mi racconta cosa accade in Asia. Ogni settimana il suo podcast “Altri Orienti” (lo potete ascoltare qui) mi porta in un posto nuovo: in Mongolia, in Giappone, in Malesia, in India e spesso in Cina. Non mi racconta mai ciò che già immagino ma mi sorprende sempre.
Simone ha vissuto per dieci anni in Cina e anche adesso che è tornato a Roma studia e legge ogni giorno tutto quello che può sull’Asia. Da un paio d’anni, da quando lavoriamo insieme a Chora Media, abbiamo preso l’abitudine di fare delle lunghe chiacchierate in cui io gli faccio sempre le stesse domande per provare a capire il punto di vista degli asiatici su ciò che accade nel mondo: l’Ucraina, l’intelligenza artificiale, Trump, Gaza, etc.
Alla fine di luglio, prima di andare in vacanza, mi ha mandato il pdf di un libro che contiene i racconti dei viaggi che ha fatto nell’ultimo anno ed è intitolato: “2100, Come sarà l’Asia, come saremo noi”. È un lungo reportage che raccontando le persone prova a capire come in quel continente si stia provando a rispondere alle grandi domande che ci stiamo ponendo a ogni latitudine: cosa mangeremo in futuro? Come garantiremo sostenibilità e vivibilità alle nostre città? In che modo si evolvono i diritti, le idee sulla famiglia, sulla convivenza, o in che modo quei diritti retrocedono. E ancora: in che modo in Asia affrontano argomenti come il lavoro, l’informazione, la sorveglianza, l’intelligenza artificiale.
Solo per fare un esempio: l’amministrazione municipale di Pechino ha deciso di limitare l’uso dell’intelligenza artificiale nel settore sanitario, vietando che la si possa usare per generare automaticamente prescrizioni mediche perché ne ha compreso perfettamente i rischi. Sullo sfondo di tutto questo c’è il tema del cambiamento climatico, di cui parla tutto il mondo e che in Asia è una priorità, perché gli effetti sono più visibili e quotidiani che da noi. «Non è detto che tutti i ragionamenti e le proposte asiatiche siano interessanti ai nostri occhi – spiega Pieranni – anzi alcune potrebbero essere pericolose, altre sorprendenti, altre ancora ci potrebbero incuriosire e portare a immaginare altre soluzioni non ancora percorse. L’intento di “2100” è scrutare un continente dal quale potremo prendere esempi, spunti, intuizioni. O evitare di ripeterne gli errori».
Il viaggio di Simone comincia a Singapore: «Appena ci sono arrivato ho passato due giorni nel quartiere indiano, avanti e indietro con la Chinatown della città Stato. Mi interessava una cosa: Singapore è l’unico posto al mondo dove si può mangiare la carne coltivata, che è carne a tutti gli effetti. Semplicemente si prelevano cellule con una biopsia e le si trasformano in carne vera e propria. Senza uccidere animali e senza produrre emissioni con allevamenti intensivi. Ho visitato alcuni posti dove vendono questa carne, ho incontrato chi investe in questo settore». Ma prima è stato in un bar alla moda in cui si fanno costosi cocktail in cui il Martini non ha l’oliva ma si mescola con le meduse e il gin con i vermi fermentati.
Da Singapore Simone ha preso un pullman, ha attraversato una distesa di giungla ed è arrivato a Kuala Lumpur, in Malaysia: «Rispetto alla disciplinata Singapore, Kuala Lumpur è Asia a tutti gli effetti, una città che non dorme mai, persone sempre per strada, una varietà etnica tra malay, cinesi, indiani che è uno degli aspetti che mi hanno sempre affascinato dell’Asia. Kuala Lumpur è caotica, congestionata, trafficata, eppure ha sviluppato un sistema “intelligente” di gestione del traffico, sta diventando un hub tecnologico focalizzato sull’intelligenza artificiale e il Financial Times l’ha definita la “vera vincitrice” del confronto tra Cina e Stati Uniti».
Dopo aver letto le prime pagine ho avuto la sensazione di essere in un film di fantascienza, un “Blade Runner” in versione asiatica, poi piano piano Simone mi ha mostrato che un posto spesso descritto come misterioso, esotico, incomprensibile, quasi fosse un altro pianeta, risulta, al contrario, straordinariamente simile a noi. Perché oggi i giovani asiatici sono molto più vicini ai giovani europei di quanto non lo fossero i loro genitori, perché vivono le stesse trasformazioni, le stesse ansie, gli stessi sogni.
Quando ho finito di leggere il libro, che uscirà in libreria la prossima settimana, ho chiamato Simone per farmi raccontare come è nata la sua passione per l’Asia, come è cominciato un viaggio che dura da quasi vent’anni. «Sono arrivato in Cina nel 2006. Ci sono arrivato per caso, all’epoca mi occupavo di questioni tecnologiche e un’azienda per cui curavo un progetto di data mining e reti neurali mi propose di andare in Cina ad aprire la sua filiale a Shanghai. Dovevo stare due settimane, ci sono rimasto dieci anni. Ai miei amici in Italia dicevo: rimango perché è come essere in Inghilterra durante la rivoluzione industriale. Era un periodo incredibile, la Cina sembrava una lavatrice, ricordo che non riuscivo a prendere sonno per tutte le informazioni che raccoglievo durante le giornate, per tutte le domande senza risposte che avevo, per tutte le cose che non capivo. L’Asia è così: ogni volta che ti sembra di aver capito qualcosa, si apre un baratro di incomprensione. E se dovessi dire una cosa, una sola, per giustificare il tempo trascorso in questi luoghi, probabilmente è questa».
Dopo un anno a Shanghai, Simone si è licenziato, è andato a Pechino e ha deciso di provare a raccontare quello che vedeva attraverso il giornalismo: «Ho fondato un’agenzia editoriale, China Files, che qualche anno dopo è diventata una delle voci più riconosciute e più informate su quanto accade in Cina e via via in Asia». Prima della pandemia è tornato a vivere in Italia ma ha continuato a fare il giornalista e a raccontare l’Oriente, prima per il Manifesto e poi con i podcast a Chora.
Alla fine, gli ho chiesto di sintetizzare in un concetto quello che ha visto di recente in Asia e Simone mi ha risposto con una sola parola: spregiudicatezza. «Il continente asiatico è vario, ha scoperto solo a inizio ‘900 la sua pluralità di lingue, religioni, etnie, quando con la stampa i filosofi giapponesi hanno scoperto quelli indiani, quando i rivoluzionari cinesi hanno scoperto quelli vietnamiti, quando persone in movimento e in fuga dai regimi coloniali hanno iniziato per la prima volta a parlare di Asia. Da allora, dopo la decolonizzazione, l’Asia è diventata all’improvviso “the place to be”: il “secolo asiatico” ha segnato la nostra contemporaneità, ci ha fatto ragionare sul tempo che abbiamo perso tra crisi economiche e “war on terror”, mentre da quella parte del mondo l’economia cresceva, la pace prosperava e le popolazioni scoprivano una modernizzazione diversa da quella che abbiamo vissuto noi. La “spregiudicatezza” – o talvolta forse sarebbe meglio dire “coraggio” – si ritrova nella corsa verso il futuro di questo posto che oggi, come il nostro mondo, si confronta con sfide epocali. Ovviamente, non è detto che il futuro asiatico debba essere il nostro, anzi. In Asia si sono sviluppati sistemi autoritari o democrazie che alle nostre latitudini definiremmo illiberali: ci sono diritti che avanzano, altri che retrocedono, si sviluppano nuove idee di città ma anche di sorveglianza, controllo e manipolazione delle informazioni». Ma è bene sapere che futuro stanno immaginando in quella parte del mondo.