«Nella foto di classe io sono quella bionda con il cerchietto, seduta in prima fila. Carlo invece era lassù in alto, sopra la professoressa: era un ragazzo prodigio, aveva dieci in tutte le materie, cosa che al Parini di allora era eccezionale e quasi impossibile. Faceva le traduzioni dal greco al latino, era estremamente timido e silenzioso». La voce di Lucetta Scaraffia, storica con cattedra alla Sapienza di Roma, scrittrice, editorialista di molti giornali, è piena di passione mentre ricorda quel suo compagno di scuola degli anni Sessanta. Dopo avermi sentito parlare in radio mi ha mandato un messaggio, scrivendomi che per cinque anni è stata in classe con Carlo Saronio, il protagonista del mio ultimo libro: “Quello che non ti dicono”. Le fa piacere raccontare e le sue parole sono così vive che mi sembra di essere tra quei 32 ragazzi della IV ginnasio, che si misero in posa davanti al fotografo nell’anno in cui veniva ucciso a Dallas il presidente Kennedy.
«Era una classe molto grande che si ridurrà drasticamente nel giro di un solo anno: in V ginnasio arriveremo solo in 15, tutti gli altri vennero bocciati e le donne diventarono una minoranza. C’era una selezione terribile e molto severa. Allora la IV ginnasio era una sorta di momento della verità e del giudizio, un filtro senza appello, chi ce la faceva poi sarebbe arrivato in fondo. Eravamo diventati subito famosi perché avevamo le ragazze più belle del Parini, ma non ne venne promossa nemmeno una. Alba Carbone, la professoressa di cui parli nel libro e che capì per prima i tormenti di Carlo, era severissima, ai miei occhi molto cattiva. Era proprio un mondo diverso e una scuola che non faceva sconti».
«Carlo sedeva nel primo banco, silenzioso, un po’ gobbo, con gli occhiali spessi e con questi capelli biondissimi, quasi color cenere. Era mostruosamente bravo, l’unico che gli teneva testa era Ezio Savino, che poi diventerà professore di greco e latino e scriverà libri memorabili. Oggi, purtroppo, non c’è più nemmeno lui. Carlo, quando c’era compito in classe, nel tempo in cui noi facevamo la versione dal greco all’italiano la faceva anche dal greco al latino e ne consegnava due. Era molto gentile, timidissimo, quasi tremava se qualcuno chiedeva qualcosa e, durante l’intervallo, stava per conto suo. Mai un suggerimento in un compito, non passava niente ai compagni, abbiamo scoperto presto che la sua gentilezza aveva dei limiti…».
In V ginnasio, il primo aprile, gli avevano attaccato un pesce di carta sulla schiena. Carlo non se ne era accorto, venne chiamato alla lavagna per essere interrogato e, quando si alzò, tutta la classe scoppiò a ridere. «Ricordo perfettamente la sua reazione quando lo ha capito: si è girato, ci ha guardato e ha fatto un sorriso buono. Non si è arrabbiato».
«Dava l’idea di essere molto cattolico, andava a messa ogni mattina nella chiesa di San Marco, era il più credente della classe. Faceva parte di Gioventù Studentesca, il gruppo di don Giussani che poi sarebbe diventato Comunione e Liberazione, era così serio e devoto che quando facevamo il gioco sui lavori che ognuno di noi avrebbe fatto, di lui dicevamo: “Studia da Papa”».
Lucetta Scaraffia si è sempre interrogata sui misteri di quel compagno di classe, su «quel muro che lo divideva dal resto del mondo», e l’unica spiegazione che è riuscita a trovare era nell’educazione che aveva ricevuto in famiglia, in quella scelta estrema di non mescolarlo con altri bambini, ma fargli fare le scuole elementari a casa, da solo, con il precettore. Gli insegnanti privati non sarebbero finiti mai, lo avrebbero accompagnato fino alla fine del liceo, con quell’idea di essere sempre i primi che era il chiodo fisso del padre: «Un compagno che era andato a studiare a casa sua (allora sarebbe stato impensabile che ci andasse una ragazza) ci raccontò che aveva professori di altissimo livello che lo educavano in tutte le materie. Io, che facevo tutto da sola e arrivavo al 6, ci rimasi male e pensai che così la gara era truccata, che lui aveva un privilegio a noi negato».
Dopo la maturità Lucetta e Carlo si persero di vista, ma un giorno, ai tempi dell’università, mentre lei studiava Lettere e lui Ingegneria, si incontrarono sull’autobus e fu lui ad andare a salutarla: «Non l’avevo nemmeno riconosciuto, era abbronzato, con i capelli lunghi, le lenti a contatto, sicuro di sé. Fu lui a chiamarmi: “Lucetta, sono Carlo”, era così diverso che stavo per svenire dal colpo, scioccata dalla metamorfosi che aveva avuto».
Lucetta sapeva che era cambiato, ma non immaginava in modo così radicale: «Avevo avuto delle voci, erano anni in cui vivevamo in mondi agitati, mi avevano detto che si era avvicinato a Potere operaio. Me lo aveva confermato mio fratello, che li bazzicava, ma io pensai non fosse possibile». Poi arrivò il giorno in cui si seppe che era stato rapito, poche settimane dopo l’arresto dell’amico che lo aveva tradito, Carlo Fioroni: «Sono rimasta sconvolta, una pena terribile quel sequestro. Poi quando fu chiara la matrice pensai che era una tragedia figlia della sua sprovvedutezza totale: vivevamo tempi bui e a lui non avevano insegnato a capire le persone, a leggere la realtà. La cosa che mi colpì maggiormente fu scoprire come Carlo, così raffinato e colto, fosse finito a frequentare persone di così basso livello, di una rozzezza intellettuale e politica».
Lucetta proprio in quel periodo lasciò Milano, dopo aver vinto una borsa di studio alla Fondazione Einaudi a Torino. Ma non perse mai i rapporti con i compagni di scuola: «Abbiamo sempre continuato a fare cene di classe, ci vediamo molto spesso, la classe è rimasta molto unita, cementata dalla tragica scomparsa di Carlo, che ha segnato anche le nostre vite. Non sapevo assolutamente che avesse avuto una figlia, sono rimasta colpitissima quando l’ho scoperto nel libro».
Dopo Carlo sono scomparsi altri compagni di malattia, l’ultimo è stato Norman Kennet Jones, morto di Covid-19 il 27 marzo, dopo 15 giorni passati in terapia intensiva all’Ospedale Sant’Anna di Como. Britannico di padre, era nato a Swansea in Galles; nella foto è vicino a Carlo, con la cravatta e la chioma bionda che lo accompagnerà tutta la vita. Era un cardiologo, aveva 72 anni, ma all’arrivo del virus era tornato in campo e si era messo a disposizione: «Si è contagiato andando a curare le suore di un convento dove nessuno voleva entrare. Era un uomo forte e generoso».