Nel primo fine settimana di aprile dell’anno scorso, 15 persone morirono in incidenti d’auto, la maggior parte di loro erano ragazzi. Quest’anno i morti sono stati due, in entrambi i casi il conducente ha perso il controllo del veicolo, e avevano più di trent’anni. Non ci sono stati incidenti in moto. Le discoteche sono chiuse, come i bar, le pizzerie, gli Autogrill, i palazzetti dei concerti e ogni luogo dove ci incontravamo. Anche noi siamo chiusi. In casa. Le strade sono quasi vuote. Il traffico in autostrada nelle ultime tre settimane è calato del 75 per cento.
Mentre ogni giorno aspettiamo le 18 per ascoltare il bollettino dei morti per coronavirus e incrociamo le dita sperando di sentire quella cifra calare, un altro bollettino si è quasi azzerato, quello dei morti sulla strada. Tra il 10 marzo e il 7 aprile, nel periodo della quarantena, sulle principali arterie italiane ci sono stati 120 morti e 3.136 feriti in meno rispetto a un anno fa. Nessuno lo sa perché nessuno fa più caso da troppo tempo a questa strage silenziosa che si ripete anno dopo anno, ogni giorno, ogni notte, soprattutto il venerdì e il sabato. In Italia, nel tempo che definiamo “normale”, c’è un incidente ogni tre minuti e un morto ogni tre ore. Ma non ce ne rendiamo conto.
Anche io non me ne rendevo conto, soprattutto non avevo idea dei costi umani di tutto ciò. Finché non ho conosciuto Raffaele, sua sorella, sua madre, suo padre, la sua fidanzata. Persone meravigliose. Raffaele un sabato notte non è tornato a casa da una festa con gli amici, l’incidente è avvenuto in aperta campagna, un contadino lo ha trovato in un campo che era già mattina. Sembrava non ci fosse più niente da fare, invece è sopravvissuto. Ma non era più in grado di camminare, muoversi, mangiare, parlare. Stava per laurearsi e invece la sua vita era da ricostruire pezzo dopo pezzo dall’inizio.
Raffaele e i suoi familiari li ho conosciuti per caso in un ospedale romano, li ho incontrati per mesi. Ho visto l’amore sconfinato che due genitori hanno messo in campo per fare qualcosa che avevano già fatto e non avrebbero mai più immaginato di fare: insegnare a mangiare, a parlare e a camminare a loro figlio. Ho visto il dolore, lo sconforto e la disperazione. Mi sono entrati dentro così a fondo che il mio ultimo libro è dedicato a loro e a tutti quelli come loro, che sono migliaia. Storie che dovrebbero fare rumore e invece passano sotto silenzio. Sulle autostrade e sulle strade provinciali del nostro Paese, dove a marzo del 2019 sono morte 155 persone, ci sono stati 3.814 feriti. Quelli che nei cosiddetti “tempi normali” riempiono le terapie intensive.
L’Italia intera si è fermata, paralizzata, chiusa in casa con una disciplina maggiore di quanto avremmo mai potuto pensare, per salvare vite umane, per fermare un nemico che è invisibile, contro cui non abbiamo né cura né prevenzione. Adesso sappiamo cosa significa agire per salvare la nostra vita e quella degli altri. Eppure possiamo soltanto stare fermi e distanti, isolati e sospettosi. Ma chi si ammala e muore per quel virus non ha colpe, responsabilità e non è vittima di qualcuno che correva troppo, aveva bevuto troppo o stava scrivendo un messaggio sul cellulare. Nel mondo normale si muore per cause che si potrebbero evitare, perché se applicassimo anche solo una piccola frazione di quella pazienza, di quella disciplina, di quell’attenzione e di quella cautela che stiamo mettendo nelle cose oggi, ci risparmieremmo un’infinità di sofferenza.
Sull’autostrada tra Milano e Brescia, che nel tempo normale è una fila infinita di lamiera, tra il 9 marzo e il 5 aprile del 2019 ci sono stati 38 incidenti. Ora, nello stesso arco di tempo, sono scesi a due. Sulle tangenziali di Milano siamo passati da 330 a 29.
Quando chiedo a Massimo Bentivegna, vicequestore della Polizia stradale del comparto Lombardia, cosa bisognerebbe fare prima di tutto per evitare di riempire gli ospedali, mi risponde: «Non avvicinarsi troppo, tenere la giusta distanza». Non sta parlando di mascherine e di distanziamento sociale ma della “distanza di sicurezza”, il cui mancato rispetto è la prima causa di incidenti in autostrada. «E pensare che basterebbe lasciare lo spazio per frenare, uno spazio indispensabile per gestire ogni imprevisto, per evitare la trappola dei tamponamenti a catena».
A Milano gli incidenti a marzo sono scesi da 1.129 a 330, quelli con feriti in particolare sono stati 710 in meno. Numeri che ci mostrano una volta in più la dimensione di una tragedia che non vediamo. Ci sono stati però tre morti, uno in più dello scorso anno. Quando il comando della Polizia locale, che si trova in piazza Beccaria, all’ombra della Madonnina, mi ha illustrato la situazione non potevo credere a quest’ultimo numero. Così mi sono messo a cercare e ho trovato che due morti sono della prima settimana, precedenti alla chiusura; il primo è un ciclista che lunedì 2 marzo è caduto da solo e ha picchiato la testa. Il terzo invece è del 19 marzo, un automobilista ha perso il controllo del veicolo mentre imboccava la tangenziale Ovest. Nessun morto in città.
Eppure basterebbe poco per far diventare questa la normalità: «Per gli incidenti – mi spiega il comandante Marco Ciacci – due sono le cause principali: distrazione e velocità. Il cellulare non solo distoglie lo sguardo ma porta la testa altrove, sia quella dei conducenti sia quella dei pedoni. In questa scena di disattenzione inseriamo la velocità, che è un fattore determinante, e ne esce il quadro che conosciamo».
La nostra speranza, nei primi giorni di questa pandemia, quelli in cui cantavamo sui balconi e disegnavamo arcobaleni, è stata che tutto andasse bene e tornasse come prima. Poi è arrivata un’altra consapevolezza: nulla sarà più come prima. Lo pensiamo con fatica, con nostalgia, sapendo che dovremo rimboccarci le maniche per ripartire e ricostruire. Ma una cosa possiamo sperare che non sia più come prima affinché tutti i Raffaele d’Italia arrivino a casa e si infilino a letto, si possano laureare e i loro genitori invecchiare sereni. Questo non dipende da un vaccino. Dipende da ognuno di noi.