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26 Marzo 2020

Quando il caso fa la differenza

Nel volume “La traversata”, Philippe Lançon spiega che a salvarlo dall’attentato nella redazione di “Charlie Hebdo”, a Parigi, è stata la casualità. La stessa che la mattina della strage nella metropolitana di Bruxelles ha protetto me. Una lezione ai tempi del virus
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Di fronte ai nemici invisibili, il caso può decidere il nostro destino. Penso spesso, in questi giorni di coronavirus, a quanto viviamo in balia di incroci casuali, esterni alla nostra volontà. La differenza, in queste settimane, può farla entrare in un ascensore da cui è appena uscito un portatore sano del virus, impugnare una maniglia o un oggetto contaminato, aver incontrato e salutato una persona a sua insaputa contagiata. Con questi pensieri per la testa ho cominciato a leggere un libro uscito all’inizio dell’anno: “La traversata”. Lo ha scritto Philippe Lançon, critico teatrale, scrittore ed editorialista del settimanale satirico “Charlie Hebdo”, raccontando la sua storia di sopravvissuto all’attentato del 7 gennaio 2015, quando due terroristi islamici, legati ad Al Qaeda, fecero irruzione nella sede del giornale durante la riunione di redazione e uccisero dodici persone.

La copertina del libro di Philippe Lançon

Philippe aveva saputo da pochi giorni che avrebbe lasciato Parigi per andare a insegnare per un semestre Letteratura all’Università di Princeton, negli Stati Uniti. Quella mattina andò al giornale per dirlo ai colleghi, raccontargli che la sua vita sarebbe cambiata. Prima di uscire di casa, aveva infilato nel suo zainetto “Blue Note”, un librone di 400 pagine sul jazz. Considerava quello zainetto di tela nera il suo portafortuna, glielo aveva regalato lo scrittore colombiano Héctor Abad, autore di uno straordinario libro sull’omicidio del padre per volontà di Pablo Escobar. Non sapeva ancora quanto quel libro gli avrebbe davvero portato fortuna.

Arrivò al giornale e partecipò alla riunione, parlarono per tutto il tempo di “Sottomissione”, il libro di Michel Houellebecq uscito quel giorno; poi, alle 11.25, decise che era ora di andarsene, si alzò e si diresse verso la porta. Ma si ricordò del libro che aveva nello zaino. Lo aveva portato per mostrarlo al vignettista Jean Cabut, detto Cabu. Voleva fargli vedere una foto del batterista jazz Elvin Jones, che Cabu amava. Quando il musicista era morto, Philippe aveva scritto un suo ricordo e Cabu aveva fatto il suo ritratto. Quando gli aveva dato il disegno, Cabu gli aveva raccontato una bella storia di cui era stato testimone nel 1977 al Festival di Chateauvallon: «All’improvviso scoppia un temporale violento – aveva detto Cabu – i musicisti e gran parte del pubblico scompaiono poco a poco, tutti se ne vanno, tranne Jones. Scatenato, immenso, battendo il tempo dell’oltretomba, il gigante dalle mani d’acciaio anima tamburi e piatti in mezzo ai lampi, solo, come un dio dimenticato, un dio orientale dalle mille braccia. Il temporale sembra creato da lui, per lui. Ci si fonde dentro. Ha cinquant’anni, il tuono rimane».

Mentre Philippe tira fuori il librone dallo zainetto, nessuno lo sa, ma i terroristi sono già entrati, sono sulle scale, ammazzano tutti quelli che incontrano, nessuno ha scampo. «Ho posato il libro sul tavolo della riunione e ho detto a Cabu: “Aspetta, ti faccio vedere una cosa”. Ci ho messo un po’ a trovare la foto che cercavo…. È un primo piano. Il batterista si accende una sigaretta con la mano destra, enorme e al tempo stesso affusolata, che tiene le bacchette a croce. Cabu l’ha apprezzata quanto l’avevo apprezzata io. Ero felice di fargliela vedere. Abbiamo sfogliato il libro, poi un rumore secco come un petardo e le prime grida all’ingresso hanno interrotto il flusso dei nostri lazzi e delle nostre vite. Non ho avuto il tempo di rimettere il libro nello zainetto nero. Non ho neanche avuto il tempo di pensarlo. E tutto il consueto è scomparso».

I due terroristi armati di kalashnikov piombano nella sala della riunione e iniziano a sparare all’impazzata; Philippe è in fondo e si butta per terra, viene ferito gravemente al volto, ma è lucido e si finge morto: questo gli salverà la vita. Seguiranno nove mesi di ospedale e 15 operazioni per ricostruirgli la faccia, ma oggi è qui e lo racconta: «Se Elvin Jones non fosse morto, non avrei scritto quell’articolo. Se non avessi scritto quell’articolo, Cabu non avrebbe disegnato la vignetta. Se Cabu non avesse disegnato la vignetta, quella mattina non mi sarei fermato per fagli vedere il libro di jazz che me l’aveva fatta venire in mente. Se non mi fossi fermato a mostragli il libro, sarei uscito due minuti prima e mi sarei imbattuto negli assassini all’ingresso o sulle scale. Ho rifatto cento volte il calcolo». Se quel giorno Elvin Jones non avesse deciso di rimanere a suonare sotto la pioggia, aggiungo io, il libro che ho in mano non esisterebbe e probabilmente nemmeno il suo autore. La nostra vita è un intreccio incredibile di occasioni, casualità e segni.

Bruxelles, 22 marzo 2016. La polizia blocca l’accesso alla fermata “Schuman” della metropolitana dopo l’attentato

Martedì 22 marzo 2016 ero a Bruxelles, alle 9:30 dovevo partecipare a un’audizione alla Commissione europea. Mentre facevo colazione, era arrivata la notizia di un attentato all’aeroporto, si parlava di due kamikaze. Pochi minuti prima delle nove sono uscito dall’albergo per andare a prendere la metropolitana, sapevo che la fermata a cui sarei dovuto scendere si chiamava “Schuman”. Ho cercato sulle mappe del telefono la stazione di partenza, ma non riuscivo a orientarmi, così sono rientrato e ho chiesto aiuto al portiere. Lui mi ha detto che non valeva la pena prendere la metropolitana, che la giornata era bella e avrei fatto meglio ad andare a piedi. Ho insistito, spiegando che dovevo essere a “Schuman” alle nove e un quarto e che non volevo arrivare trafelato e sudato, ma lui quasi irremovibile mi ha detto: «Ascolti il mio consiglio, un tempo così capita raramente a Bruxelles, faccia la passeggiata a piedi, arriverà in perfetto orario e anche più contento». Non lasciava spazio a repliche. Mi mise in mano una cartina su cui aveva segnato il percorso, così seguii il suo consiglio e mi incamminai.

La prima pagina dell’edizione speciale del quotidiano belga “Le Soir”

Arrivai di fronte alla fermata “Schuman” poco dopo le nove e dieci, vidi del fumo uscire dalle scale e poi delle macchine della polizia arrivare a sirene spiegate in contromano. Mi fecero segno di allontanarmi, entrai nel palazzo della Commissione europea. Alle 9:11 il treno che era appena partito dalla stazione “Maelbeek” in direzione “Schuman” era stato distrutto da un’esplosione, il secondo attentato della giornata: fece 20 vittime. La mia audizione non venne cancellata, ma la mia testa non era lì. Appena finita, riuscii a raggiungere la sede del quotidiano “Le Soir”, dove il direttore Christophe Berti mi offrì una scrivania per lavorare. Trovai un posto lì vicino dove dormire. La mattina dopo tornai al primo albergo, volevo rivedere quel portiere, ringraziarlo. Non c’era, era di riposo. Non l’ho più visto, ma non lo dimenticherò mai.

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