Santa Cristina García aveva vent’anni quando decise di partire. Sua sorella più piccola era nata con un grave problema al palato e aveva il labbro leporino, non c’era modo di curarla a Comitancillo, il villaggio sulle montagne del Guatemala dove vivevano; l’unica soluzione era andare in una clinica privata nella capitale. Nessuno però aveva i soldi per farlo. Per questo Santa Cristina scelse di unirsi ad altri quindici che si stavano per mettere in cammino, prima verso la frontiera messicana e poi in direzione degli Stati Uniti. La sua meta era la Florida, avrebbe cercato lavoro in un ristorante o in una fattoria: aveva scoperto che la paga oraria, anche per i lavori in nero, era superiore a quanto avrebbe potuto guadagnare in una intera giornata restando a casa. Non pensava ad una scelta di vita, piuttosto a una missione con uno scopo ben preciso: raccogliere i soldi necessari per regalare una nuova esistenza a sua sorella.

Con lei c’era Marvin, il più bravo a giocare a calcio in paese, tutti lo chiamavano “Messi”. Il gruppo aveva camminato a lungo, poi aveva viaggiato sulla “bestia” – il treno merci che corre lungo il Messico verso Nord – ma a quaranta chilometri dalla frontiera con il Texas erano stati fermati da una banda di poliziotti corrotti. Li avevano sequestrati e stipati nel rimorchio di un camion. Nessuno di loro capiva perché. La ragione era che il coyote, la guida che avrebbe dovuto portarli oltre confine, non aveva pagato la tangente agli agenti, e questi avevano deciso che serviva una punizione esemplare affinché nessuno si permettesse mai più di attraversare il loro territorio – lo Stato di Tamaulipas – senza comprare il loro permesso. Dopo aver chiuso il rimorchio cominciarono a sparare: 120 colpi che uccisero tutti. Poi diedero fuoco al camion. Ci vollero tre mesi per identificare le vittime e dargli un nome. Solo allora il governo del Guatemala decise che li avrebbe rimpatriati, con le bare avvolte nella bandiera.


Nel villaggio di Comitancillo i funerali durarono due giorni, la banda seguiva ogni processione dalla chiesa fino al cimitero passando in mezzo ai campi scoscesi di montagna. Le famiglie seppellivano non solo i corpi ma la speranza che qualcuno potesse fare fortuna. Alla fine della cerimonia funebre per Santa Cristina si notava immobile una ragazza avvolta in una coperta guatemalteca: era Maria, la cugina, stessa età e stessi sogni. È stata lei a raccontare il sogno di Santa Cristina, il motivo di quel suo viaggio verso la frontiera e la disperazione di una famiglia che le aveva affidato tutti i risparmi, scommettendo che sarebbe tornata con la soluzione e avrebbe restituito il sorriso alla sorellina.
Quel suo racconto, raccolto fuori dalla chiesa, sarebbe arrivato negli Stati Uniti, sul Washington Post e sulla Cnn, grazie a un fotografo italiano che era andato a seguire il dramma di un piccolo villaggio.
Poche settimane dopo alcuni donatori fecero arrivare alla famiglia i soldi necessari per operare la bambina. Nel villaggio dicono che Santa Cristina è riuscita comunque a guarire sua sorella, che ha compiuto la sua missione.

Questa storia me l’ha raccontata proprio il fotografo che l’ha scoperta, si chiama Nicolò Filippo Rosso, è piemontese di Busca, ha studiato Lettere a Torino, e poi ha cominciato a viaggiare in America Latina. Nicolò, che ha quasi quarant’anni, è uno studioso di culture e tradizioni, che quindici anni fa ha scelto come sua casa la Colombia, anche se la sua vita è nomadica. Ha fatto ogni tipo di lavoro per mantenersi, dal cuoco all’agricoltore fino al facchino. Quando ha compiuto trent’anni ha cominciato a fotografare, all’inizio era solo un modo per costruire un archivio di memorie, ma poi si è innamorato dell’idea di testimoniare quello che vedeva.
Ha iniziato con un lavoro sulla malnutrizione di una delle più grandi nazioni indigene di tutto il continente americano, si chiama Wayuu e abita in una penisola colombiana al confine con il Venezuela, una zona desertica, passaggio di contrabbando e narcotraffico, con una delle più grandi miniere di carbone a cielo aperto del mondo.
In quei luoghi ha cominciato ad osservare la grande migrazione venezuelana in Colombia, la grande fuga da un Paese senza speranza. Ha visto i ragazzi finire nei campi a coltivare la coca, le ragazze finire nelle case della prostituzione, ha studiato le rotte ma anche i motivi che spingono donne, uomini, anziani, famiglie con bambini piccolissimi a partire, a fare viaggi allucinanti.

Ogni volta che si parla di rotta migratoria americana, pensiamo subito a quella che porta al confine degli Stati Uniti, invece Filippo mi racconta che le rotte sono due: una verso Nord ma l’altra è verso Sud e punta a Cile, dove esiste lavoro nelle costruzioni e una promessa di vita migliore. «Ho iniziato a seguire questo flusso che segue la cordigliera delle Ande e dalla Colombia passa all’Ecuador, al Perù, entra in Bolivia, in Argentina e poi raggiunge il Cile. È un cammino di mesi, anche di anni. Ho conosciuto famiglie che hanno un figlio peruviano e uno boliviano. Spesso non c’è il lieto fine, così chi fallisce torna indietro: fa il viaggio all’indietro fino alla Colombia e a quel punto si dirige verso il confine tra Messico e Stati Uniti. Vite intere spese camminando e facendo piccoli lavori lungo la strada».
Donne e uomini che scappano dalle fatiche e dalle sofferenze ma che non riescono mai a liberarsene: «Vivono in un ciclo di violenza, povertà e vulnerabilità che non finisce nei luoghi di destinazione, che si portano dietro tutta la vita».

Il primo gennaio del 2021 Nicolò è a San Pedro Sula, città dell’Honduras devastata dagli uragani caraibici, per raccontare le conseguenze del cambiamento climatico. Per poter lavorare e fotografare ha dovuto chiedere i permessi alle gang che controllano interi quartieri della città. Fa amicizia con alcuni leader di comunità, che gli raccontano che si sta formando una carovana, che la gente si sta accumulando per le strade per partire verso il Messico e raggiungere il Texas. Quando li raggiunge non può credere ai suoi occhi: sono quasi diecimila personein marcia. Inizia a camminare con loro, percorrono tra i venti e i trenta chilometri al giorno, arrivano in Guatemala e la folla cresce sempre di più, finché incontrano l’esercito che ha avuto l’ordine di disperderli. Ci sono scontri, lacrimogeni, manganelli. Si riformano piccoli gruppi e Nicolò li segue fino alla frontiera con gli Stati Uniti, camminando per sette mesi.
Il suo lavoro di testimonianza comincia a ricevere premi e a trovare giornali e riviste che comprano le sue foto, ma il suo sguardo si allarga e arriva all’Africa, tanto che in questo momento sta tornando in Sud Sudan per documentare, per conto delle Nazioni Unite e di Medici senza Frontiere, la crisi dei rifugiati che fuggono dalla guerra civile sudanese (per avere un’idea delle dimensioni della cosa, ci sono un milione di persone rifugiate in Sud Sudan, 700mila in Ciad e mezzo milione in Egitto). «Nei due continenti la disperazione è la stessa, ma le grandi migrazioni africane hanno campi di rifugiati, nel continente americano invece non ci sono campi profughi ma milioni di persone sulle strade e nelle periferie delle città sulla rotta».

La cifra di Nicolò è quella di non inseguire la cronaca, ma di stare in mezzo alle persone a lungo per poter raccontare i fenomeni profondi e le motivazioni che li creano. In questi viaggi ha costruito molte amicizie, rapporti preziosi che continuano nel tempo. Nelle ultime settimane ha sentito spesso quelli che sono riusciti ad arrivare in America, che hanno trovato un lavoro e che ora vivono nel terrore di essere arrestati e deportati.
Quando ci incontriamo ha appena finito una telefonata con una famiglia di cittadinanza colombiana e venezuelana che abita a San Antonio in Texas. Il padre si chiama Amado, ha 43 anni, e Nicolò l’ha conosciuto una notte sul tetto della “bestia”, quando l’immenso treno merci aveva fatto sosta a Chihuahua. Amado era insieme al figlio Ezechiel, 12 anni, con cui cercava di raggiungere la moglie Jennifer, che era riuscita ad arrivare a Denver dove aveva trovato lavoro.
Si erano persi di vista nel deserto quasi al confine di Ciudad Juarez, poi aveva saputo che padre e figlio, dopo essere riusciti a raggiungere il Colorado erano stati arrestati e rispediti in aereo in Colombia.
«Un anno fa ero a Bogotà per inaugurare una mostra sulle migrazioni al Centro culturale Garcia Márquez, avevo ancora il loro telefono e così li ho invitati. C’erano politici e giornalisti e al momento della presentazione io ho fatto parlare loro ed è stato un momento molto commovente. Alla fine, Amado mi ha detto che sarebbero ripartiti: “Stiamo aspettando che finiscano le piogge a Panama e poi ci rimettiamo in cammino per raggiungere Jennifer”».

Alcuni mesi dopo padre e figlio erano di nuovo alla frontiera e, in attesa di provare a passare, Amado aveva trovato lavoro come muratore a Reynosa, città messicana di confine. «C’erano dei cavi scoperti e dell’acqua per terra, Amado è rimasto folgorato ed è crollato di fronte a Ezechiel completamente ustionato e privo di conoscenza. L’ambulanza è stata autorizzata ad entrare negli Stati Uniti e lo hanno portato nell’ospedale più vicino, a McAllen, ma la situazione era così grave che i militari se ne sono fatti carico e lo hanno trasportato in elicottero fino all’ospedale dell’esercito a San Antonio. Hanno rintracciato la moglie, che ha fatto in tempo ad arrivare mentre gli davano l’estrema unzione. Era in coma e senza speranze. Invece si è ripreso, gli hanno fatto sei interventi chirurgici per ricostruire la pelle e il volto e per mesi tutta la famiglia ha vissuto in ospedale insieme ai medici e ai soldati».


Nicolò appena lo ha saputo è volato fino in Texas per andare a trovarlo in ospedale, ora Amado è stato dimesso: è in convalescenza a Dallas. Jennifer, nel frattempo, ha avuto il permesso di soggiorno e lavora in una ditta di pulizie, lui e Ezechiel invece no, sono illegali, il loro permesso umanitario è scaduto. Sognano di andare a vivere in Alaska, ma vivono con il fiato sospeso: quell’America che gli ha salvato la vita potrebbe ancora una volta rimandarlo alla casella di partenza e separarlo nuovamente dalla sua donna. Questa volta però non avrebbe più la forza per rimettersi in cammino.