«Ho studiato tutta la vita per dare un nome all’uomo che ha ucciso mio padre, è stata come la caccia a un fantasma, e una lotta contro il tempo». E quando sembrava fosse ormai troppo tardi, quel fantasma si è materializzato di fronte ai suoi occhi e, «anche se non vedevo tanto bene perché le lacrime sfocavano tutto», ha finalmente saputo la verità. Ci sono voluti cinquant’anni per questa verità – Bruno allora aveva appena finito la quinta elementare e ora è in pensione- ma certe cose non perdono importanza e valore nemmeno dopo un’infinità di tempo: «Io ricordo ancora alla perfezione il rumore del battito del cuore di mio padre».

Il papà di Bruno si chiamava Giovanni D’Alfonso, era un appuntato dei Carabinieri, e il 5 giugno del 1975 venne ammazzato dalle Brigate Rosse in un cascinale di campagna in provincia di Alessandria dove i terroristi tenevano prigioniero l’industriale dello spumante Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato il giorno prima. In quello scontro a fuoco venne uccisa anche Mara Cagol, moglie del fondatore delle BR Renato Curcio, ma il nome del brigatista che sparò a D’Alfonso, e che poi fuggì, non si era mai saputo. Fino a questa settimana. E il merito è tutto di Bruno e della sua tenace lotta per la verità. Per farmi raccontare questa storia sono andato a incontrarlo a Pescara dove vive e dove, dopo trent’anni passati in divisa da carabiniere, oggi lavora come giornalista.
«In questa storia i casi e le coincidenze sfortunate sono molte. Noi vivevamo a Mosciano Sant’Angelo, in provincia di Teramo, io ero il secondo di tre figli, con una sorella di due anni più grande, Cinzia, e una di nove più piccola, Sonia. Abitavamo nell’appartamento sopra la stazione dei carabinieri e la nostra vita scorreva tranquilla. Poi mio padre, che veniva chiamato “l’avvocaticchio”, perché diceva sempre le cose come stavano, ed era una persona allegra capace di avere la fiducia della gente, finì involontariamente in un guaio. Un gruppo di ragazzi ubriachi, fermati dopo una rissa, avevano sbeffeggiato il maresciallo suo superiore, dicendo che l’unico di cui avevano rispetto era D’Alfonso. Questa venne ritenuta una sua colpa e il giorno seguente, dopo 27 anni di servizio, fu mandato per punizione in Piemonte. Era il 1974».

La famiglia rimase in Abruzzo, aspettando che il padre trovasse una sistemazione. Prima venne assegnato alla stazione dei carabinieri di Garessio, sulle Alpi tra Piemonte e Liguria, ma lì non c’era la scuola media e allora chiese il trasferimento. «Venne mandato ad Acqui Terme e questa è la seconda coincidenza sfortunata. Era arrivato da poche settimane quando a Canelli venne sequestrato l’industriale Gancia. Tutte le compagnie limitrofe vennero allertate. Presto si capì che non era stata la delinquenza comune a rapirlo, ma i terroristi rossi, perché nella fuga uno dei sequestratori ebbe un incidente e quando venne fermato si dichiarò prigioniero politico.
Iniziarono delle battute nelle campagne alla ricerca del covo e venne individuata una cascina, dal nome Spiotta, poco lontana da Acqui e circondata dal bosco. A fare i controlli avrebbero dovuto essere i carabinieri del nucleo antiterrorismo del generale Dalla Chiesa di base a Torino, ma quella mattina c’era la festa dell’Arma – questa è la terza coincidenza – e l’operazione venne rimandata al pomeriggio. Così la prima perlustrazione la fecero gli uomini della stazione locale, quattro militari, tra cui mio padre»

Era quasi mezzogiorno quando il tenente Rocca, che guidava il gruppo, raggiunse la cascina. Nel cortile c’erano due auto parcheggiate, una 128 bianca e una 127 rossa, a D’Alfonso venne dato l’incarico di controllarle, mentre gli altri si avvicinarono alla porta. All’interno c’erano due terroristi che, non appena videro i carabinieri, aprirono la finestra e lanciarono due bombe a mano. Il tenente venne colpito in pieno e perse un braccio e un occhio, il maresciallo che era accanto a lui, Rosario Cattafi, venne colpito dalle schegge. «Anche mio padre, che era più lontano, venne ferito ma solo di striscio e riuscì a mettersi al riparo. Rocca e Cattafi rotolarono giù da un dirupo e finirono sulla strada, dove in quel momento passava il postino che li caricò in auto e li portò in ospedale. Mio padre rimase solo, mentre il quarto collega era alla macchina e chiamava i rinforzi».
I terroristi provarono a fuggire da una porta laterale, sotto il porticato, e D’Alfonso allora cominciò a sparare. Colpì Mara Cagol a un polso e di striscio alla schiena, loro risposero al fuoco e lo presero a una spalla trafiggendogli un polmone. «Mio padre aveva finito i 7 colpi della sua Beretta 34 e si accasciò a terra ferito. Uno dei due terroristi tornò indietro e gli sparò in fronte. Il colpo uscì dal collo, ma non lo uccise subito. Sarebbe sopravvissuto quasi una settimana in ospedale prima di morire».
I due brigatisti salirono sulle auto per scappare ma il primo, nella fuga, andò a sbattere contro l’auto dei carabinieri ferma sul cancello e la 128 bianca guidata da Cagol, che seguiva, lo tamponò. Uscirono entrambi, ma lui aveva ancora una bomba a mano e la tirò contro l’ultimo carabiniere rimasto, Pietro Barberis, che però non venne colpito. «Il brigatista riuscì a fuggire, la Cagol che era ferita, alzò le mani, ma il collega di mio padre le sparò. Come noto sono seguiti anni di polemiche per questo».
Alle mani di Mara Cagol venne fatto il guanto di paraffina per capire se avesse tracce di polvere da sparo e fu subito chiaro che non era stata lei a sparare a D’Alfonso. Ma nessuno seppe mai, e nessuno dei brigatisti disse mai, chi era l’uomo che era riuscito a fuggire.

«Avevamo appena finito di mangiare, mia madre era andata in cucina e io ero rimasto solo davanti alla televisione. Ho sentito che dicevano che c’era stata una sparatoria in Piemonte in cui era rimasto ferito gravemente un carabiniere di nome Rodolfo D’Alfonso. Mi sono spaventato, poi ho pensato che la tv non potesse sbagliare, che il nome di mio papà era Giovanni, quindi non poteva essere lui. Però avevo tanta angoscia e allora sono corso fuori per andare a giocare a pallone per strada. Dalle scale ho gridato alla mamma: “Guarda che hanno ferito un carabiniere che si chiama come noi”. Quando sono tornato, la casa era piena di gente. Quella sera mia madre è partita in treno verso Nord. Papà però era già in coma irreversibile».
Due giorni dopo i carabinieri di Pescara caricarono Bruno su una Giulia bianca e lo portarono ad Alessandria per un ultimo saluto al padre. «Ricordo ogni cosa nei dettagli: lui era tutto intubato e il battito del suo cuore rimbombava nella stanza. Non potevo accettare che il mio idolo morisse così. Pensavo a quando mi portava in piscina o a judo, di quanto fosse orgoglioso di me, di quanto ero felice con lui. Da quel momento tutto sarebbe cambiato, l’ansia sarebbe diventata la mia compagna di vita».
Nel 1994 Bruno legge un libro-intervista a Renato Curcio – “A viso aperto” – e quando si racconta della sparatoria alla cascina Spiotta il capo brigatista dice di non poter dire chi fosse il terrorista fuggito, perché non voleva gravarlo di una nuova imputazione. «Da quel momento il bisogno di sapere è diventato il mio chiodo fisso, ma ci sono voluti degli anni per trovare la forza di cominciare a scavare».
Nel 2009, insieme a due giornalisti – Simona Folegnani e Bernardo Lupacchini – comincia un lungo viaggio alla ricerca della verità. «Ho trovato il coraggio di andare alla Cascina Spiotta, perché prima di tutto dovevo fare i conti con quel luogo. Sono andato a parlare con tutti i contadini della zona e ne ho trovato uno che aveva venduto dei formaggi a Mara Cagol, poi ho incontrato Vittorio Vallarino Gancia, che ricordava il corpo di mio padre riverso a terra».

Bruno si mette a studiare gli archivi e i faldoni delle indagini e scopre che in un covo brigatista era stato trovato un documento in cui si raccontava tutta la sparatoria, corredato da mappe e disegni. Poteva averlo fatto solo il terrorista che era riuscito a scappare. Quel foglio era stato preparato per Renato Curcio che voleva capire come fosse morta sua moglie. Così nel 2019 Bruno fa un esposto con cui chiede che vengano riaperte le indagini e che con le tecniche più avanzate ora disponibili vengano cercate le impronte digitali su quel documento. È la giusta intuizione: ne vengono trovate una decina, appartengono all’ex brigatista Lauro Azzolini, 81 anni, che ora è tornato sotto processo insieme a Renato Curcio (84 anni) e Mario Moretti (79).
Martedì scorso, 11 marzo, Azzolini ha chiesto di poter parlare nell’Aula del Tribunale di Alessandria e ha confessato di essere lui il brigatista fuggito. «Non sono riuscito a guardarlo: ero troppo sconvolto e commosso. Ho registrato quello che ha detto e ho sentito che ha iniziato la testimonianza con le parole “Mi dispiace”. Ho pensato che avrebbe potuto parlare prima, in modo spontaneo. Ma ora deve continuare e dire con chiarezza come ha ucciso mio padre».
Adesso quel fantasma ha un nome e un volto, quello di un anziano signore in libertà che porta la coppola in testa e ha un fisico atletico. «Mia madre è ancora in vita, ha 86 anni, ed è prezioso che sia vissuta fino a sapere la verità. Perché la verità è una cosa che rasserena». Bruno continuerà a prendere il treno per Alessandria finché il processo non sarà finito e nei momenti liberi continuerà a suonare il contrabbasso jazz che gli regala serenità.

Dopo averlo incontrato siamo andati a pranzo e con noi c’era un vecchio amico comune, Marco Alessandrini, figlio di Emilio, magistrato assassinato dal gruppo terroristico Prima Linea nel gennaio del 1979. I loro padri, mi raccontano, erano nati a 50 metri di distanza: nel quartiere di San Comizio a Penne, qui in Abruzzo. «Il fatto che adesso siamo insieme a ricordarli è una bella coincidenza».