Per metà della sua vita Maite Billerbeck è stata una ragazza ribelle che ha combattuto contro l’autoritarismo della sua famiglia; per l’altra metà una donna che ha dovuto fare i conti con la vergogna e i terribili segreti che quella famiglia nascondeva.
Aveva 27 anni, Maite, quando sua madre morì di cancro: «Quel giorno andai a casa dei nonni per farmi raccontare com’era mia mamma da bambina. La nonna mi parlò di quando era nata, di quel 1943 di guerra, e, immersa nei ricordi, cominciò a spiegare che anche suo fratello maggiore era stato in guerra: era un capitano delle SS e, aggiunse, si diceva avesse fatto qualcosa di brutto in Italia. Ma loro non ci credevano, perché lui, disse, era una persona così amabile, gentile e simpatica che “Non sarebbe stato capace di fare del male ad anima viva”, concluse la nonna». Maite si sentì a disagio ma non fece domande: c’era già abbastanza dolore dentro di lei per occuparsi anche del passato.
Quella sensazione di malessere le rimase dentro, in silenzio, per più di quindici anni fino al giorno in cui una sua collega psicoanalista le raccontò di aver scoperto che suo nonno era stato un ufficiale delle SS e che aveva fatto cose terribili. Improvvisamente le parole della nonna, che era scomparsa l’anno prima, le tornarono in mente con violenza. «La prima cosa che ho fatto è stata di mettermi al computer a cercare. È bastato digitare il suo nome – Hans Roehwer – per trovare la sua foto in divisa e scoprire che aveva fatto parte di un’unità speciale delle SS, chiamata “La guardia del corpo di Hitler”, colpevole di atrocità in tutta l’Europa dell’Est. Lui, il fratello di mia nonna, il mio prozio, quello che non avrebbe mai fatto male a una mosca, aveva comandato la strage degli ebrei del Lago Maggiore. Aveva dato l’ordine di ammazzare 54 persone, tra cui dei bambini, e di gettare i loro corpi nel lago. Ero completamente scioccata».
Per anni Maite era andata in vacanza in Italia, non si era mai sentita a disagio, mai come in quel viaggio da studentessa in Costa Rica quando incontrò un gruppo di pensionati americani che avevano combattuto in Europa e riconosciuto il suo accento le urlarono in faccia tutto il loro disprezzo per la Germania: “Fucking bitch”.
«Adesso invece provavo una profonda vergogna, ero tormentata dai sensi di colpa e continuavo a chiedermi come fosse stato possibile che nella mia famiglia non se ne fosse mai parlato. Era come se nulla fosse accaduto: questa storia era stata completamente negata e rimossa».
L’estate dopo aver scoperto tutto prese la macchina e raggiunse il Lago Maggiore, per dieci giorni vagò a cercare tracce del passaggio dei nazisti, a Meina trovò la lapide che ricorda “i numerosi uomini, donne e bambini ebrei” trucidati. «Ero tristissima, non riuscii a parlare con nessuno, ma volevo saperne di più. Tornata in Germania ho cominciato a girare per gli archivi e mi sono procurata l’intero fascicolo del processo a cui, nel 1968, fu sottoposto il fratello di mia nonna». Scoprì così che era stato condannato all’ergastolo, le accuse non erano “delle voci” – come diceva sua nonna – ma le deposizioni di 180 testimoni e una sentenza che non lasciava scampo. Eppure, solo due anni dopo, nel 1970, fu scarcerato, dopo che la Corte Suprema di Berlino considerò prescritti i reati.
«Mi chiedevo continuamente: cosa posso fare per riparare? C’erano momenti in cui il peso di questa storia era per me insopportabile e allora cercavo di allontanarla da me. Ma alla fine ho sentito che era assolutamente necessario fare qualcosa per ogni singola persona che era stata uccisa, restituendo loro una voce». Oggi che ha 54 anni, Maite per la prima volta ha trovato il coraggio di commemorare pubblicamente le vittime. Mi parla da Berlino, sta facendo la valigia per venire in Italia, domenica 24 settembre sarà sul lungolago di Meina, insieme al suo compagno Andreas e alle figlie di 19 e 15 anni.
Sono passati esattamente ottant’anni da quel settembre del 1943 quando i tedeschi da alleati si trasformarono in occupanti. Cominciarono subito le deportazioni dei soldati italiani nei campi di prigionia e quelle degli ebrei nei campi di sterminio. Iniziarono le stragi e le fucilazioni. Alla fine di quell’estate la divisione delle SS di cui faceva parte il prozio di Maite venne spostata sul Lago Maggiore, per bloccare le vie di fuga verso la Svizzera. Sul lago c’erano molte case di villeggiatura di ebrei milanesi. E lì, i nazisti, porteranno a termine la più grande strage di ebrei in Italia dopo le Fosse Ardeatine.
Se domenica Maite sarà a Meina, per ricordare e commemorare le vittime del nazismo, è stato possibile grazie a un’altra donna, Rossana Ottolenghi, psicologa anche lei, figlia di Becky Behar, una ragazzina sopravvissuta a quelle stragi.
È stato lo storico Carlo Gentile, che insegna a Colonia, a parlare a Maite di Rossana: «Le ho scritto. Così ha avuto inizio tutto. Ero molto emozionata perché non sapevo come Rossana avrebbe reagito nel ricevere una mail dalla discendente del principale autore del crimine. Ma è andata molto bene, abbiamo avuto un lungo scambio e alla fine mi ha invitata ad andare a trovarla in Liguria dove era in vacanza con suo marito Aldo».
L’incontro è avvenuto l’8 agosto ed è Rossana a raccontarmelo: «Non sapevo da dove cominciare, così le ho raccontato del lavoro di testimonianza che faceva mia madre nelle scuole. Lei mi ha raccontato la sua storia, la fatica, il senso di colpa e ci siamo subito volute bene. Ho sentito un calore totalmente inatteso e ho capito che l’esigenza profonda di questa donna era davvero di fare un percorso di memoria e di riscatto dal peso che sentiva sulla sua coscienza».
Alla fine dell’incontro si sono fatte una foto, ma nessuno potrà mai vederla: il telefonino di Andreas, che l’aveva scattata, quel pomeriggio è caduto in mare.
Domenica il loro incontro sarà pubblico e insieme andranno al Parco della Memoria e del Ricordo creato nello spazio un tempo occupato dall’Hotel Meina, che allora era di proprietà di Alberto Behar: «Il 15 settembre i nazisti entrano nell’albergo – mi spiega Rossana Ottolenghi, che ha sentito questo racconto centinaia di volte da sua madre Becky, che allora aveva solo 13 anni – e dicono a mio nonno Alberto: “Nulla è più tuo, nulla più ti appartiene”.
L’hotel in quel momento era pieno di ebrei arrivati da Salonicco che vennero rinchiusi in 16 in una stanza all’ultimo piano. Una settimana dopo, nel giro di due notti, li portarono via, quattro alla volta, e li ammazzarono tutti. I cadaveri vennero poi gettati nel lago con dei pesi per tenerli sul fondo. Gli ultimi ad essere fucilati furono i tre fratelli Fernandez Diaz: Jean aveva 17 anni, Robert 13 e Blanchette 12».
La mamma di Rossana si salva grazie all’intervento del viceconsole turco, musulmano, che era ospite sul lago dall’ebreo Alberto Behar. «Mio nonno – spiega Rossana – era di origine turca e aveva sempre mantenuto il doppio passaporto, così quando il viceconsole vide sparire tutti si recò al comando delle SS a Baveno e minacciò uno scandalo internazionale perché la Turchia era uno Stato neutrale. L’ufficiale tedesco gli disse allora di prendersi i suoi turchi e di portarli via. Quella notte stessa mio nonno mise tutta la sua famiglia su una barca e, attraverso il Lago Maggiore, raggiunsero la Svizzera».Nel 1968 Alberto Behar e sua figlia Becky vennero chiamati a testimoniare al processo: «Mia madre fu decisiva: si ricordava che uno dei nazisti le aveva ammazzato il cane e l’aveva buttato nel lago. Disse di ricordarsi che mentre glielo portava via zoppicava. Il giudice chiese all’imputato di camminare nell’aula. Zoppicava».
Rossana ha scelto di dialogare con Maite perché ha sentito che sono unite dalla lotta contro l’oblio. «L’obiettivo non è il perdono, nell’ebraismo non si può perdonare qualcuno al posto di qualcun altro, ma fare memoria».
«Non posso cambiare le cose: degli esseri umani sono stati uccisi e non si può rimediare a quella perdita. Ciò che invece posso fare – promette Maite – è non prendere parte alla negazione e al silenzio. Posso alzare la voce e ricordare».