di Michele Smargiassi*
Chi sarà l’ultimo fotoreporter? Quale sarà l’ultima immagine a uscire dalla mente e dalla lente dell’ultimo discendente di quella stirpe di testimoni oculari dell’attimo presente? Sarà una fotografia di guerra? Le guerre non mancano mai. Sarà un ritratto? Sarà un momento di vita qualsiasi, in cui solo un occhio sapiente ha saputo scorgere una scheggia di significato?
Nulla dura in eterno, e la via Appia della storia è fiancheggiata dai mausolei dei linguaggi morti e dei media tramontati. Il fotogiornalismo, come lo conosciamo, non ha ancora compiuto cent’anni, ma nessuno gli garantisce una longevità maggiore. I robot sono dietro l’angolo. Dopo quell’ultima fotografia, cosa verrà?
Non ho conosciuto Andy Rocchelli. È un rammarico. Ho conosciuto alcuni dei suoi compagni d’avventura in quella piccola Magnum sulle colline di Piacenza che si chiama Cesura. C’è un’aria di famiglia. Lo immagino, come loro, assetato. Lo vedo da come beve la realtà, nelle sue fotografie. A grandi sorsi avidi. Come beve a una fontana chi, nell’arsura di un’estate, teme incongruamente che l’acqua possa finire di scorrere.
Non sto dicendo che sia stato un fotografo istintivo. Precipitoso. Frettoloso. Tutt’altro. Guardi la sua icona, quei ragazzi nel caos calmo di un pozzo che non si può neppure chiamare cantina, e non puoi fare a meno di pensare al più abusato dei paragoni pittorici, la luce di Rembrandt. Il quadrato è storto, una figura sghemba, non c’è niente di retto in quel dramma; la luce vien da sotto, ci chiama e ci inghiotte nella falsa sicurezza di quel nascondiglio. Chapeau, Andy.
Sto dicendo che, dopo aver scorso e riscorso molte volte le sue fotografie, non riesco, come avevo sperato, a dire: Rocchelli è stato “il fotografo di”. Non solo perché ci sono salti abissali di tema e di clima fra le storie che ha raccontato, tra l’antropologia della solitudine dei seminaristi e la scultorea presunzione dei lottatori indiani, tra il surrealismo trash dei riti padani e il vuoto umano di un paese fallito come l’Afghanistan.
Ma perché per ciascuna di queste immersioni totali in un contesto, in una storia, Rocchelli ha scelto il tono e lo stile che gli servivano. Senza preoccuparsi tanto di pescare ispirazione dal repertorio dei linguaggi disponibili nella storia del reportage. (…) Tutti i veri fotografi fanno così, sanno che la ricerca di uno stile troppo univoco e costante può essere una trappola, comunque è una conquista lenta e sperimentale, che Andy purtroppo non ha potuto portare a compimento. Uno stile che però nella “sua” Ucraina notturna e fumante sembra cominciare a prendere la sua strada.
Ci manca il Rocchelli maturo. Ma quello nascente e assetato ci riempie ugualmente gli occhi. Il suo modo di cercare, a tutto campo, credo non sia solo l’effetto di una scelta professionale ancora fresca. Credo che abbia qualcosa a che fare, appunto, con la differenza fra una professione (qualcosa che esce, pro-, da noi) e una vocazione (qualcosa che ci chiama dall’esterno).
Le immagini chiamano Andy Rocchelli. “Cercava e trovava”, dice di lui il suo pedagogo, Alex Majoli. Ma doveva essere vero anche il contrario: le immagini cercavano lui. Ovviamente, non gli cadevano addosso per caso. C’è una specie di motto che gira fra i fotografi di Cesura, “Se sei nel posto giusto, le cose succedono”, che in fondo è una variante del celebre mantra di Robert Capa. Credo che le storie fotografate da Rocchelli ci parlino di questo, della ricerca insistente, incessante, appassionata del posto giusto. Che è poi ricerca del punto di vista giusto: un concetto sia topografico che etico.
Credo ci parlino di un mestiere della cui indispensabilità sconsideratamente la comunità ha cominciato a dubitare: quello del testimone oculare. Perché è questo, essere lì e vedere, il cuore della professione del fotogiornalista. Non è la fotografia a definirne lo status: anche il fotografo di moda o il ritrattista fotografano. La fotografia è lo strumento con cui il testimone rende la sua testimonianza a coloro che ne hanno bisogno per formarsi un’idea del mondo in cui vivono. Nel corso di un dibattito, al festival del giornalismo di Perugia, Andy arrivò ad affermare che il fotoreporter è un raccoglitore di documenti, e “questo avviene sia con una fotografia che raccogliendo un bossolo per terra… La documentazione avviene con un pezzo di carta, una foto, un sasso, qualunque cosa…”.
È l’idea, così pesantemente svalutata, del reporter come quello che riporta. Ma non riporta a caso. Lo fa con sapienza. Seleziona, sceglie. Il suo collega Gabriele Micalizzi dice: “Voleva vedere le cose dentro le foto”, e credo sia detto benissimo: c’è sempre una ragione evidente, visibile, in ogni fotografia di Andy, che ci suggerisce perché l’ha fatta. Io so lo sguardo di quella bambina nell’inquadratura di un feretro di un morto di ‘ndrangheta, vedo i sogni di quel ragazzino che scalcia un pallone in Daghestan, percepisco la grinta da operetta del guerriero da softair, sento la durezza dei sampietrini sparsi di Maidan.
L’unica pubblicazione che Rocchelli ha realizzato in vita è una fanzine, una specie di giornale a fogli piegati uno nell’altro. Penso sapesse che sarebbe arrivato il tempo del libro (è arrivato). Ma questo suo inizio irruente, a pieno orizzonte, anche se amputato della sua futura maturità, o forse proprio per questo, ci trasmette la fiducia in una virtù delle relazioni umane, la condivisione dello sguardo, che la fotografia ha portato all’apice della sua potenza antropologica. Sarebbe una grave perdita farne a meno. Quale posto troverà il fotoreporter all’epoca della sua emarginazione tecnica, non è dato saperlo, ma le immagini di Andy Rocchelli dicono che lui, arrivato con gli ultimi, non voleva essere l’ultimo.
*Michele Smargiassi, giornalista, scrive su Repubblica dal 1989, occupandosi in prevalenza di società e cultura. Appassionato di fotografia, sulle colonne del quotidiano cura il blog Fotocrazia