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18 Marzo 2021

L’ultima alba di Vittorio Padovani

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Nei miei ricordi di ragazzino c’è una bambina elegante con un cappottino blu che portava il nome di Maria Vittoria, era di sei anni più piccola di me e la vedevo alle feste della Polizia. Non parlava mai, per timidezza, ma sorrideva sempre. Aveva una sorella e due fratelli molto più grandi di lei e aveva avuto un padre soltanto per dodici giorni. Suo papà Vittorio l’aveva vista per l’ultima volta all’alba del 15 dicembre 1976, lui era uscito di casa quando era ancora buio ma quando era già sulla porta tornò indietro per guardare la mamma che la allattava. Disse una sola frase alla moglie: «Volevo vedere ancora una volta questo meraviglioso quadretto». Con quell’immagine negli occhi venne ucciso poco dopo da un giovanissimo terrorista che si chiamava Walter Alasia.

La targa posta all’ingresso del giardino che il Comune di Milano ha intitolato al vicequestore Vittorio Padovani e al maresciallo Sergio Bazzega, uccisi dal brigatista Walter Alasia il 15 dicembre 1976

Vittorio Padovani è uno dei tantissimi nomi che compone l’elenco delle vittime del terrorismo, le cui biografie sono ridotte alle poche righe che raccontano la dinamica della morte. Così diventano soltanto dei simboli, delle divise, un numero. Vittorio Padovani, 47 anni, aveva invece una vita piena di storie e di passioni. Da quando era rimasto orfano di madre a 8 anni aveva trovato la sua salvezza nello studio. Si era iscritto al liceo classico a Modena durante la Seconda Guerra mondiale, il ginnasio era aperto a singhiozzo e poi venne sospeso dalle bombe, così imparò il latino e il greco dal padre con cui giocava a parlare come gli antichi. Una capacità che gli salvò la vita.

Arrestato durante una retata nazista nel marzo del 1945, si difese grazie alla conoscenza del tedesco dicendo che era solo uno studente. L’ufficiale allora gli fece una domanda in latino e Vittorio rispose senza incertezze e poi passò al greco. Fu scarcerato ed evitò la fucilazione che sarebbe toccata pochi giorni dopo ai suoi compagni di cella. Avrebbe raccontato questa storia per anni, aggiungendo un particolare: alcune settimane prima dell’arresto uno zingaro gli aveva letto la mano predicendo una morte violenta, ma il greco e il latino, concludeva fiero, avevano avuto la meglio sulla chiromanzia. Fino a quell’alba del 1976.

Era tanto che non sentivo più parlare di Padovani, finché alcune settimane fa è uscito il libro di uno scrittore che conosco da molti anni e che scriveva sulla mia “Stampa”, Giuseppe Culicchia. Il libro che si intitola “Il tempo di vivere con te” racconta la vita dell’assassino di Vittorio, quel Walter Alasia che di Culicchia era cugino e che venne a sua volta ucciso, mentre fuggiva dopo aver sparato ai poliziotti. Si racconta un ragazzo, le sue idee, i pranzi e i giochi di famiglia, perché anche i terroristi non sono numeri ma vite.

Quando sono arrivato alle ultime pagine le ho lette con sconforto perché ci ho trovato un vizio vecchissimo e pericoloso, quello di giustificare il terrorismo e di ammantarlo di idealismo. Quello di parificare i morti, di pareggiare il conto, mettendo su un piatto della bilancia i terroristi caduti e sull’altro i poliziotti, magistrati, professori o sindacalisti uccisi. Ma non si può fare, perché da una parte c’erano persone che avevano deciso di combattere una guerra che nessuno aveva dichiarato e si erano messe a sparare, dall’altro chi ha difeso e salvato questa democrazia.

Un’immagine di piante in fiore nel giardino dedicato a Padovani e Bazzega, che si trova tra via Solari e via Stendhal, a Milano

Ne ho parlato con Cesare Martinetti, un amico prima che un giornalista, che quel tempo lo ha analizzato e capito come pochi. Ha scritto un pezzo, che trovate qui, in cui spiega meglio di me perché è un libro sbagliato e ci aiuta a riflettere ancora una volta su quell’abbaglio italiano che giustifica la violenza. Io sono andato a farmi una passeggiata tra i fiori del giardino milanese che da dieci anni è intitolato a Vittorio Padovani e a Sergio Bazzega, che morì con lui.

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