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24 Marzo 2020

Lo squillo che squarcia la solitudine

Il poeta Franco Arminio ha pubblicato sui social il suo numero di telefono. Ogni giorno molte persone lo chiamano per avere compagnia, ascolto, conforto. Perché il virus ci ha divisi, peggio di un terremoto
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Ogni mattina, alle nove, il poeta Franco Arminio si siede alla scrivania e comincia a rispondere al telefono, lo fa per tre ore, senza sosta. Non conosce nessuno di quelli che lo chiamano, ogni conversazione dura una decina di minuti e tra una telefonata e l’altra non passano mai più di trenta secondi: il cellulare suona in continuazione. Parla con venti persone ogni giorno, si segna il nome e l’età di tutte, prende appunti e ascolta. Tutto è cominciato venerdì 13 marzo, quando ha messo il suo numero di telefono su Facebook e Instagram con un messaggio semplice e chiaro: «Se qualcuno vuole chiamarmi per farsi due chiacchiere, sono a disposizione tutte le mattine dalle nove a mezzogiorno».

Franco Arminio, foto di Alberto Cristofari/Contrasto

Lo chiamo anch’io, aspetto che abbia finito il suo lavoro di ascolto e gli telefono, voglio capire cosa lo ha spinto. «Dobbiamo aprirci all’impensato, anche perché l’impensato ha travolto le nostre vite e allora è sterile illudersi di continuare con lo stesso ritmo, facendo le stesse identiche cose. Dobbiamo aprire la nostra testa all’immaginazione, ognuno di noi dovrebbe fare un piccolo gesto che si discosta dalla normalità. Io ho pubblicato il mio numero di cellulare». E che cosa puoi dare a chi ti telefona? «Io, da vecchio ipocondriaco, posso mettere a disposizione l’esperienza di anni di panico e di nervi tesi».

Ha appena superato le 200 telefonate – chiamano più donne che uomini, sette su dieci – e naturalmente non si ferma a mezzogiorno: «Vado avanti anche dopo; quando qualcuno chiama, mica posso dirgli che ho chiuso e lui è arrivato fuori orario. Sono tre ore intense ed emozionanti. Mi contatta chi ha qualcosa da dire, chi si sente solo, chi ha bisogno di condividere. Una signora da Bergamo mi ha detto una frase terribile, che spiega tutto il dramma di questi giorni: “Qui adesso non si muore soltanto, si sparisce”».

Per questo Arminio ha proposto un momento di lutto nazionale, domenica 29 marzo a mezzogiorno: cinque minuti di silenzio per ricordare tutti questi morti soli e senza funerale. «Cinque minuti senza telefono, senza computer, per onorare queste persone scomparse; si può pregare, leggere una poesia o semplicemente stare in silenzio. Io credo che ci voglia un momento collettivo di ricordo, servirebbe a produrre coesione, solidarietà, qualcosa di utile anche per ricostruire dopo. Su queste morti anche il governo dovrebbe dire qualcosa, non limitarsi alle regole dei decreti e allo scarno bollettino dei numeri. Ci vorrebbe un minimo di poesia, dovrebbero sentire l’esigenza di abbracciare il Paese. Quanto mi manca una politica che sia anche capace di volare alto, di pronunciare parole calde».

La solitudine e la distanza sono le cose che, secondo Arminio, pesano di più in questi giorni. Così la persona che lo ha commosso di più è stata la signora Rosa, che l’ha chiamato dall’Isola d’Elba: «Ha 75 anni ed è vedova da molto tempo, ma ora ha un amore e vorrebbe tanto baciare quell’uomo. Ho realizzato quanto sia dolorosa questa impossibilità di contatto fisico; penso a chi ha i figli o i genitori lontani, a quante migliaia di fidanzati e di amanti sono separati. Una ragazza di Genova mi ha parlato del suo compagno, vivono nella stessa città, ma non si vedono da 15 giorni perché hanno paura di essere fermati dalla polizia. Ho letto che una coppia è stata denunciata a Gragnano perché faceva l’amore in macchina: provocatoriamente dico che non sta scritto da nessuna parte, nel decreto del governo, che è vietato fare l’amore in auto per chi non ha una casa. La verità è che il virus ci ha colti impreparati e ci ha divisi».

Il numero di telefono di Franco Arminio pubblicato sul suo profilo Instagram

Arminio vive nella casa in cui è nato, nel febbraio del 1960, a Bisaccia in Irpinia, terra di vento forte e isolamento. La casa, allora, era la locanda di famiglia, l’aveva aperta suo bisnonno alla fine dell’Ottocento: «Sono cresciuto dentro l’osteria. Quando tornavo da scuola, mangiavo insieme ai clienti dove c’era un posto libero, poi facevo i compiti su quei tavoli, giocavo e disegnavo. Non avevo una mia cameretta, tutto era in comunità. Adesso, invece, è diventata la casa dove vivo con mia moglie e i due ragazzi, che hanno 26 e 24 anni e fanno i musicisti».

Si capisce perché senta così forte l’importanza della condivisione, del rapporto umano. Nei suoi incontri nelle librerie e con le associazioni – ne fa anche 25 al mese – legge poesie, dialoga e a metà, a sorpresa, chiede al pubblico di cantare tutti insieme tre canzoni. Parte sempre con “Azzurro” di Adriano Celentano. «Al primo istante sono tutti stupiti, non se l’aspettano da un poeta, ma poi vengono coinvolti e tornano a casa più lieti e anche felici».

«Ho cominciato a scrivere poesie quando avevo 15 anni, ma per tutta la vita sono stato un poeta clandestino che pubblicava libri sconosciuti ai più». Poi a 57 anni, nel 2017, il successo improvviso con la raccolta “Cedi la strada agli alberi”, che supera le 35 mila copie. «Se devo dire la verità, mi consideravo un poeta non riconosciuto, un cantore di paesi, di realtà abbandonate; per questo ho scelto per me la definizione di “paesologo”».

Un paesologo è chi coltiva la memoria e il ritorno alla vita dei borghi deserti e abbandonati: tutto è chiaro anche pensando alla sua biografia, segnata dal terremoto del 1980 e dal conseguente spopolamento di quelle terre. «In questi giorni cupi penso spesso a quella tragedia che fu il sisma dell’Irpinia, a quanta sofferenza e devastazione portò, ma mi sono reso conto con angoscia che i morti di coronavirus sono già il doppio di quelli che fece il terremoto. La parte vecchia del paese, dove vivo, è un museo delle porte chiuse, un paesaggio silenzioso e vuoto. Ieri mattina ho visto una volpe che attraversava la piazza, gli animali stanno tornando e si stanno riprendendo spazio. Noi eravamo già abituati a questa dimensione, oggi anche le grandi città ci hanno raggiunto e l’assenza è diventata il paesaggio italiano».

Il primo grande ospedale, per chi abita a Bisaccia, si trova ad Avellino, ma è più di un’ora di macchina. «La gente ha molta paura perché l’ospedale è lontano e sovraccarico. Qui si sente ancora di più il terrore per il virus, le persone sanno che non possono permettersi di ammalarsi perché nessuno si farebbe carico di loro, così stanno tutti chiusi in casa, non c’è nessuno in giro, i pochi che escono hanno la mascherina anche in auto. La gente ha smesso di parlarsi, temono che scambiare una sola parola, anche da lontano, possa portare con sé il virus. Non parliamo di quelli che sono tornati da fuori, sono visti malissimo, un amico ha un figlio che è tornato da Londra e ha dovuto farsi prestare una casa lontana da tutti dove metterlo in quarantena».

In questo panorama lui ha regalato il suo numero di telefono e si è messo a disposizione: «Faccio la mia piccola parte; la gente parla, si sente compresa e, quando chiude la telefonata, il peso che ha sul cuore è un po’ più lieve. Tutto qui».

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