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25 Giugno 2020

Le mani di quelle fate clandestine

A raccogliere le fragole nelle serre della Spagna meridionale sono braccianti stagionali reclutate in Marocco. Donne senza diritti, ancora più invisibili dei migranti uomini. Le loro storie ora sono raccontate nel volume di una giovane ricercatrice, anche lei figlia di emigrati
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I vecchi ancora si ricordano di un certo Felix Mora, un ex ufficiale francese, che negli anni Cinquanta-Sessanta girava il Sud del Marocco per reclutare uomini da mandare nelle miniere di carbone del Nord Pas-de-Calais, in Francia. Per la prima selezione i candidati passavano davanti a lui a torso nudo: dovevano avere tra 20 e 30 anni, una buona vista e pesare intorno ai 50 chilogrammi. Poi Mora gli guardava i denti, i muscoli, la colonna vertebrale. E infine le mani, il palmo, il dorso, le prendeva nelle sue, le palpava, le stringeva per valutare la forza e insieme l’elasticità. «Dovevi mostrarti forte e docile, e non bisognava far capire che parlavi francese, perché non volevano che tu potessi capirli. I prescelti ricevevano un tampone verde sul petto, gli scartati un tampone rosso».

Raccoglitrici di fragole provenienti dal Marocco al lavoro in una serra nella provincia di Huelva, nella Spagna sud-occidentale (foto di Chadia Arab)

Adesso non c’è più Mora, ma i reclutatori sono molto attenti, cercano donne da mandare nelle campagne della Spagna a raccogliere fragole ed è ancora una questione di mani: devono essere delicate «come quelle delle fate», ma mani lavoratrici, agili e robuste, forti e tenere, leggere ma segnate. I reclutatori le osservano con attenzione, scelgono le donne meno in carne, le preferiscono snelle, non belle, marcate dal lavoro, anche rudi. Donne di campagna, che non parlino spagnolo, anche analfabete, sole, non vogliono che ci siano mariti di mezzo, e devono avere figli che le obbligano a tornare in Marocco a stagione finita. E anche ora, come faceva il vecchio Mora, si decide con un tampone verde o rosso: scelte o respinte, sommerse o salvate.

La storia delle “dames des fraises” ce la racconta Chadia Arab, geografa dell’Università di Angers, autrice di diversi progetti realizzati con il Cnrs, il centro francese della ricerca scientifica. Il suo studio, già pubblicato in Francia, Spagna e Marocco, esce ora in Italia per le edizioni Luiss con il titolo “Fragole. Le donne invisibili della migrazione stagionale”. Ha il rigore del saggio scientifico e la forza emotiva delle testimonianze umane. Chadia è una giovane studiosa che percorrendo le tracce delle migrazioni dal Marocco alla Spagna, alla Francia e all’Italia, ha incrociato la storia della sua vita. Suo papà Ahmida era arrivato in Francia dal villaggio di Beni Ayatt nel 1965, aveva 34 anni, aveva lasciato moglie e due figli, non parlava una parola di francese, aveva in tasca un biglietto e gli indirizzi di due ragazzi del suo villaggio: uno di Marsiglia, l’altro di Angers, nei Paesi della Loira. Ha scelto quest’ultimo perché gli avevano detto che era una città tranquilla.

Chadia Arab (ritratto di Marta Signori)

Racconta Chadia: «Mia mamma è arrivata nel 1972 e io sono nata qui, quarta di cinque fratelli. Papà ha trovato subito lavoro nell’edilizia, in una grande impresa di costruzioni, la Brochard et Gaudichet. Le condizioni di vita erano molte dure. Faceva parte dei primi arrivati qui ad Angers, dove si è poi formata una comunità di marocchini originari di Beni Ayatt. Allora i migranti venivano accolti a braccia aperte, c’era lavoro nei cantieri, nelle miniere, in fabbrica: c’era la Francia da ricostruire». Chadia dice di aver avuto un’infanzia molto felice: «Abitavamo nel quartiere popolare della Roseraie, che abitualmente viene definito “difficile”, ma per me non è stato difficile. I miei genitori sono di origine molto modesta anche in Marocco, papà ha avuto una piccola pensione, mia mamma non ha mai lavorato. In Francia sono vissuti bene, sono cresciuti come le prime generazioni di migranti, non parlavano francese, non erano venuti con l’idea di integrarsi o sognando una straordinaria crescita sociale. Ma sapevano che era importante far studiare i figli per riuscire nella vita».

All’università Chadia comincia a studiare la comunità marocchina di Beni Ayatt installata ad Angers e inizia il suo percorso a ritroso sulle piste della migrazione. Per tre anni vive a Rabat: «Ho imparato l’arabo che già parlavo ma solo nella dimensione famigliare, ho appreso i codici e cominciato a inserirmi in un Marocco che non conoscevo, nella società civile, ho scoperto un Paese che si stava trasformando. Un giorno sono andata a Beni Ayatt per salutare la mia famiglia e ho incontrato lavoratrici che rientravano a casa dopo la stagione delle fragole, nella Huelva, a Sud di Siviglia. Era un fenomeno che non conoscevo. Ho preso contatto con loro, sono andata nei campi con loro. E ho costruito un progetto di ricerca per il Cnrs».

E così a Chadia si è spalancato un mondo nuovo, molto diverso dall’emigrazione dei suoi genitori e della ormai storica comunità marocchina di Angers. Diverso anche dall’emigrazione maschile sregolata in Spagna e Italia degli anni Novanta e Duemila che già aveva studiato. Questa era una storia di donne, sconosciute e dunque invisibili, arruolate nei campi e tradotte a Tangeri e di qui in battello nelle campagna della Huelva, dove giacciono sterminate piantagioni di fragole, “l’oro rosso”. Sono migliaia. Ci spiega Chadia: «In Spagna amano le marocchine, perché sono più docili, malleabili, per quelle “mani di fata”, perché a differenza delle spagnole o delle bulgare e rumene, accettano di lavorare senza guanti. È un frutto delicato, la fragola, va maneggiata con cura, al tatto si devono scegliere quelle che vanno per la marmellata e quelle destinate alle nostre tavole».

È un fenomeno di migrazione circolare dal 2007 regolato da una convenzione bilaterale Spagna-Marocco chiesta dall’Unione europea che ha dato un quadro al fenomeno, ma che, secondo Chadia Arab, ha prodotto emancipazione ma pure aggravato la marginalizzazione delle donne, che vengono stipate in baracche di latta, spesso controllate con videocamere, non ricevono alimenti e si devono arrangiare da sole, nel giorno libero posso uscire dal recinto dell’azienda indossando gilet gialli per essere sempre riconoscibili e se non lo fanno perdono tre giorni di paga. Ci sono stati casi di abusi e di violenza, qualche donna si è ribellata, in genere subiscono in silenzio, sempre ricattate dai mediatori che in ogni momento possono rimandarle a casa o minacciarle di non richiamarle l’anno dopo. Un inferno, ma dicono loro, «meglio questo inferno all’inferno del Marocco».

Le storie individuali, poi, hanno destini e percorsi differenti. Ci sono donne che affondano ancora di più nella povertà, ce ne sono che dopo anni conquistano i documenti della Spagna (secondo la convenzione, dopo quattro stagioni ne avrebbero diritto ma non accade mai e bisogna aspettare a lungo) e finalmente la libertà di attraversare la frontiera quando vogliono. Ma in generale sono sottoposte a rapporti di potere senza soluzione di continuità tra il Paese d’origine e quello di migrazione. La società marocchina è e resta essenzialmente patriarcale. In Spagna i capi delle aziende sono in maggioranza uomini bianchi di nazionalità spagnola. Sulle stagionali pesa una tripla dominazione: la nazionalità (lavoratrici marocchine e datori di lavoro spagnoli), il sesso (lavoratrici donne e datori di lavoro uomini) e la classe (braccianti e imprenditori agricoli), in un contesto che resta sostanzialmente post-coloniale.

Le raccoglitrici di fragole arruolate in Marocco vengono fatte salire sui furgoni con cui datori di lavoro e mediatori le trasportano

Il libro si apre con la storia di Saïda, che diventa l’eroina emblematica di questa epopea. Quando Chadia l’ha incontrata aveva 37 anni e un figlio di 20, era stata sposata a 15 con un militare cha prestava servizio nel Sahara e che dopo quattro anni l’ha lasciata. Non è mai andata a scuola perché in casa studiavano solo i maschi… Quando ha saputo della raccolta delle fragole in Spagna è andata a Mohammedia, dove reclutavano le stagionali: «Ci dicevano che non prendevano quelle belle, non dovevamo presentarci ben vestite o truccate. Eravamo in seimila a spingerci, ci siamo battute per un lavoro di miseria, ma era la miseria a farci partire». Chadia ha incontrato recentemente Saïda, non aveva ancora i documenti ma aveva scelto di rimanere in Spagna, in condizioni molto difficili: «Se tutte fossero regolarizzate ci sarebbero meno clandestine, potrebbero scegliere di andare e venire che è quello che loro vogliono fare. Il fatto che non siano riconosciute, fa crescere il fenomeno delle “harragas”, “les brüleurs des frontières”, sotto i ricatti delle mafie che fanno girare falsi documenti, grandi difficoltà per queste donne».

Chadia, qual è stato l’intento del suo libro? «Volevo mettere in luce la vita di queste donne di cui non si parla. Si conoscono molte cose sugli uomini, ma pochissimo sulle donne che partono, si tende a considerarle solo sotto l’aspetto della moglie dell’emigrato e non si vedono le donne che partono da sole per lavorare nei campi di fragole o come infermiere o badanti. Volevo valorizzare la loro parola, invisibili anche alle associazioni dei diritti umani, che parlano molto dei problemi degli uomini ma quasi mai delle donne senza documenti in uno Stato europeo. Sono donne che non parlano né francese né spagnolo ma che hanno molto da insegnarci, resistono per cambiare il loro destino, danno molto alle loro famiglie ma anche al mondo per portare un po’ più di uguaglianza e giustizia sociale».

E che ne è delle loro mani di fata? «Dopo qualche stagione sono molto rovinate, le unghie diventano nere, la pelle rugosa. Hanno mal di schiena… C’è anche un vero problema di salute, temo che tra qualche anno se ne parlerà com’è accaduto molto anni dopo per i guai ai polmoni degli uomini che hanno lavorato nelle miniere di Pas-de-Calais».

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