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13 Marzo 2023

Le idee vengono di notte

Ernesto Colnago entra nel mondo delle biciclette a 13 anni e con i suoi telai ha fatto la storia del ciclismo. Vi racconto il nostro incontro
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Prima di andare a dormire, per settant’anni, ha messo sul comodino un bicchiere d’acqua, un foglio di carta e una matita: «Per tutta la vita mi sono svegliato di notte e lì mi venivano le idee migliori, ma dovevo scriverle subito perché avevo paura di dimenticarmele prima dell’alba». Ernesto Colnago, l’artigiano italiano che ha fatto la storia del ciclismo con i suoi telai, ricorda ogni cosa e ama raccontare la sua vita di fatica e di passione. Ha appena compiuto 91 anni e aperto un museo dove ci sono tutte le sue bici che hanno vinto Mondiali, Olimpiadi, Giri d’Italia e Tour de France. Ne conto più di cento.

Il museo Colnago si trova a Cambiago, in Brianza, e si può visitare gratuitamente su prenotazione (qui trovate tutte le informazioni)

Due anni fa ha venduto l’azienda fondata nel 1954 perché voleva darle un futuro nel mondo della competizione globale. Lo ha fatto con lucidità e con la fortuna di essere stato protagonista della sua storia fino all’ultimo giorno. Il museo che ha creato occupa gli spazi della storica officina, quella dove ha fatto le sue rivoluzioni, dell’acciaio, dell’alluminio e del carbonio.

Nel mondo del lavoro e delle biciclette, Ernesto Colnago entra alla fine della Guerra, quando ha solo 13 anni: «All’oratorio c’era un cartello: “Si cercano giovani per fare biciclette”. Però bisognava andare a Milano e avere 14 anni. Arrivare in città non era un problema, mio padre che era contadino mi prestò la sua bicicletta, bastava pedalare per un’ora e un quarto all’andata e altrettanto al ritorno. Per quel dettaglio dell’età mi feci aiutare a cambiare la data di nascita sul documento, così ottenni il posto all’azienda “La Gloria”, che si trovava in Viale Abruzzi 42 e faceva bici meravigliose come “la Garibaldina”, era un marchio di lusso, per signori. Ogni giorno veniva a trovarci un ragazzo che abitava un portone più in là, al 44, e che sarebbe diventato famoso, era il figlio del portinaio, era di un anno più giovane di me e si chiamava Gian Maria Volontè».

Il primo giorno di lavoro – era il 25 novembre 1945 – a scombussolare i suoi piani ci pensò il cielo: «Aveva nevicato tutta la notte e non si poteva andare in bici, dovetti prendere il tram, ma era strapieno e quel viaggio infinito fino a Piazzale Loreto, lo feci appeso fuori dalla carrozza. Grazie al cielo mia madre aveva tagliato per me il pesantissimo cappotto grigioverde dello zio Ambrogio, che era tornato dalla Russia. Io mi vergognavo di sembrare un piccolo militare, allora la mamma lo aveva immerso nel blu di Prussia, ma mi colorava sempre il collo e tutti mi prendevano in giro».Era l’ultimo arrivato, un ragazzino ingenuo e con il collo macchiato di blu, il nonnismo non mancava e così i dispetti: dopo l’ennesima pedata nel sedere abbandona il suo posto nella catena di montaggio dei telai e si mette a rincorrere il colpevole.

Per fortuna non lo raggiunge, perché come scoprirà più tardi, è Ernesto Formenti che sarà campione olimpico di boxe a Londra nel 1948. Quando Colnago torna al suo posto lo aspetta la punizione. «Il responsabile del mio reparto, che stava facendo una saldatura, si gira e mi fa una bruciatura sul braccio. Comincio a piangere e non so come comportarmi. Torno a casa dolorante, mia madre vede la scottatura e scoppia anche lei a piangere, mentre mio padre diventa serissimo e mi chiede di spiegare. Poi mi fa una sola domanda: “Ti piace stare lì?”. “Sì, molto”, rispondo. “E perché ti hanno punito?”.  “Perché ho lasciato il mio posto e ho guardato in giro”. Mi ripete la prima domanda: “Ti piace stare lì?”. Gli faccio sì con la testa e allora lui taglia corto: “Se ti piace davvero, allora non guardare più in giro”. Erano proprio altri tempi!».

Ernesto Colnago con in mano un telaio delle sue biciclette vincenti

Ernesto montava venticinque telai alla settimana e la passione per la bicicletta lo aveva conquistato talmente tanto che cominciò a correre. Vinse una quindicina di corse per giovani dilettanti e quando riusciva ad arrivare tra i primi tre il salumiere del paese lo premiava con due panini alla mortadella. A quasi vent’anni però la carriera si interruppe per una caduta nella Milano-Busseto: frattura del perone. «Mi immobilizzarono la gamba destra con un’asse di legno, rimasi fermo per quarantacinque giorni. Non c’erano mica la televisione e il telefono, così mi annoiavo da morire. Allora chiamai l’azienda e chiesi se potevano mandarmi a casa delle ruote da montare, andavo come un treno e mi resi conto che potevo guadagnare molto di più a mettermi in proprio. Quando mi rimisi in piedi trovai in paese, davanti all’osteria, una bottega, che faceva per me. Era un locale di soli 5 metri per 5, ci stava un tavolo di legno di gelso e i pochi strumenti del mestiere».

Si mise a montare biciclette per conto di altri e poi nel 1954 assemblò la prima bici con il marchio Colnago. Cominciò a produrle per i corridori dilettanti della zona e così il suo cognome iniziò a girare nel mondo delle corse. L’anno dopo partecipò al Giro d’Italia come meccanico di Fiorenzo Magni, che vincerà la corsa, fu l’esperienza che gli aprì le porte di un mondo nuovo, gli fece conoscere Fausto Coppi e gli scatenò la fantasia e la passione.Nel 1960 alle Olimpiadi di Roma, Luigi Arienti conquistò l’oro nell’inseguimento con una Colnago e da lì i successi non si contano più.

La maglia di Luigi Arienti, vincitore della medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma del 1960
Alcune delle maglie dei ciclisti che hanno corso con le biciclette Colnago

Ernesto ricorda tutto con una precisione incredibile, i campioni con cui ha lavorato, da Eddy Merckx a Toni Rominger, da Bugno a Ballerini a Saronni, che per lui è stato come un figlio, e snocciola le date delle vittorie, le storie e i modelli delle bici su cui erano in sella. Ha vinto tutte le corse, gli mancava solo il Tour de France, ma ce l’ha fatta con l’ultima bici prodotta nella sua vita: la V3-Rs con cui nel 2020 Tadej Pogacar è arrivato in maglia gialla a Parigi.

Colnago è stato un grande inventore, sperimentando i materiali e l’aerodinamica come nessun artigiano aveva mai fatto: «Per usare il carbonio, ma lo volevo resistente come l’acciaio, sono andato a farmi aiutare da Enzo Ferrari, uno degli incontri più felici della mia vita, e poi a fare ricerca al Politecnico di Milano».

A metà degli Anni Ottanta comincia a fare le biciclette su misura in carbonio, un’altra rivoluzione, lo ascolto e penso che un uomo così geniale e umile allo stesso tempo sia qualcosa di inimitabile, per la costanza della sua innovazione dovrebbero dargli il compasso d’oro, il più autorevole premio per il design.

Nei suoi racconti c’è tanta fatica, la sveglia all’alba, molta nebbia, di quella che non si vede più, e amici che lo costringevano a stare ore seduto a tavola come Gianni Brera, Mario Fossati e Gianni Mura.

Ernesto Colnago davanti al museo creato negli spazi della sua storica officina
Il libro scritto insieme a Marco Pastonesi “Ernesto Colnago – Il Maestro e la bicicletta” edito da 66thand2nd

È in gran forma, anche se dice che ha un po’ di sciatica. Mi metto a ridere e gli dico che vorrei arrivare io così a 91 anni. Ride anche lui: «La colpa dei miei acciacchi è di quei venticinque anni in cui ho fatto il meccanico alle corse, viaggiavamo su auto scoperte e ho preso tanto di quel vento e tanta di quella pioggia che oggi tornano a trovarmi ogni giorno».

Gli chiedo quale sia stato il suo segreto: «Devi avere amore e passione altrimenti non sopporti i sacrifici e la fatica e non inventi nulla».

Mi porta a pranzo e alla fine gli faccio una di quelle domande stupide, quali siano stati il giorno più bello e il più brutto della sua vita. Resta un po’ in silenzio, poi vedo che i pensieri lo commuovono: «È successo tutto nello stesso giorno e nello stesso istante, quando in ospedale il medico è uscito dalla sala parto e mi ha chiesto: “Siamo in emergenza, chi vuoi salvare, la moglie o il figlio?”. Non ho avuto dubbi e ho detto: “La Vincenzina”. Ci eravamo conosciuti alle elementari e ci siamo messi insieme che avevamo tredici anni, il nostro matrimonio è durato 65 anni. Ero felice che lei fosse viva e addolorato per la perdita del figlio maschio che non sarebbe mai più arrivato. Lei è mancata cinque anni fa. Io sto bene e ho avuto tutto dalla vita, ma quanto mi manca la mia Vincenzina».

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