Per Antonio Mumolo, non esistono cause perse. È convinto che ognuno meriti di far valere i propri diritti ed è stato lui a gettare le fondamenta di quello che definisce «lo studio legale più grande d’Italia e pure quello che fattura meno». Nato a Brindisi nel 1962, Mumolo si è trasferito a Bologna da studente universitario e non se n’è più andato. È avvocato giuslavorista ed è impegnato in politica, ma sin da ragazzo ha dedicato tempo al volontariato. Esattamente 20 anni fa ha avuto l’idea con cui è riuscito a unire il lavoro e la propensione per il prossimo. Lui, infatti, è il fondatore e il presidente di “Avvocato di strada”, onlus che offre tutela legale gratuita alle persone senza fissa dimora e alle vittime della tratta di esseri umani. L’associazione conta su 1.075 volontari in tutto il Paese, ha sportelli in 55 città e nel 2019 ha dato risposta a quasi quattromila richieste di assistenza. Dopo aver dato battaglia sul “decreto Salvini”, ora è pronta a sostenere la regolarizzazione dei migranti sfruttati e costretti a lavorare in nero.
«Tutto – racconta Mumolo – origina dalla mia esperienza con “Amici di Piazza Grande”, associazione bolognese che ho contribuito a fondare nel 1993 e che si occupa di emarginazione sociale. Il principio portante è quello dell’auto-aiuto. Tra i progetti realizzati, ad esempio, ci sono un laboratorio per riparare biciclette, una sartoria e un giornale, il primo in Europa fatto e venduto da senza fissa dimora. Iniziative che vanno oltre la mera solidarietà, che liberano dall’umiliazione di mendicare e mirano a insegnare un mestiere». Avvicinando la gente per strada o nei dormitori, però, Mumolo si accorge di una cosa: tantissimi gli chiedono consulenza giuridica, per i problemi più disparati. «Ho capito che c’era una grossa fame di diritti. Che, invece di limitarmi a distribuire coperte o pasti caldi, sarei stato più utile mettendo a disposizione gratuitamente la mia professionalità. Ricordiamoci che chi non ha una casa, e quindi non ha residenza, non ha accesso al patrocinio a spese dello Stato».
Mumolo, insomma, si rende conto che il diritto costituzionale di agire e difendersi in sede giudiziaria è un miraggio per chi non può permettersi un avvocato. Così, lui e una collega si organizzano: ciascuno dedica un paio d’ore alla settimana ad ascoltare grane legali e a cercare di risolverle. Nel gennaio 2001 viene inaugurato il primo sportello di assistenza; nel 2007 nasce la onlus. «C’era la fila ai ricevimenti – ricorda Mumolo – ho impresso nella memoria il “cliente 1”: era un pranoterapeuta, aveva appena superato grossi problemi di alcolismo e voleva riprendere a lavorare per potersi affittare un alloggio. Grazie al parroco aveva trovato un locale da adibire a studio, avrebbe dovuto aprire la partita Iva, ma non poteva registrarsi alla Camera di Commercio perché la sua domanda di residenza era stata rigettata dal Comune di Bologna. Se non avesse incontrato noi, non avrebbe potuto impugnare il provvedimento di diniego e probabilmente sarebbe rimasto per strada».
Questo, secondo Mumolo, è il punto. In Italia, senza residenza non si può essere assunti, non ci si può iscrivere alle liste per l’assegnazione del medico di base o delle case popolari, non si può fruire di alcune misure di welfare, si perde la previdenza sociale e non si può votare. «Stiamo parlando di un diritto soggettivo che i Comuni non potrebbero negare. Del resto, converrebbe alle amministrazioni stesse rendere visibili persone che esistono e vivono sul loro territorio. Il fatto di poter rintracciare i cittadini è una questione di sicurezza, perciò la residenza è regolata da disposizioni di diritto pubblico e gli elenchi anagrafici sono sotto il controllo del ministero dell’Interno»
Ed è proprio il caso del “cliente 1” a fare scuola. «Presentammo ricorso d’urgenza al tribunale – continua Mumolo – una settimana prima dell’udienza, il Comune comunicò che aveva deciso di dare la residenza al nostro assistito, in quanto “meritevole”, ma che si sarebbe costituito in giudizio per dimostrare che la nostra interpretazione delle norme era sbagliata. Invece, abbiamo vinto noi. Con le spese processuali che ci sono state riconosciute abbiamo comprato computer e materiale per l’ufficio. Soprattutto, un giudice aveva stabilito che la residenza non si concede in via discrezionale ai meritevoli, si dà e basta. Forti di quel precedente, abbiamo scritto una lettera al Comune per informarlo che i dormitori della città erano frequentati da 400 persone senza dimora e che avremmo fatto causa per tutte. Risultato? Hanno ottenuto la residenza e molte si sono affrancate dalla strada. Da lì in avanti, abbiamo conquistato varie sentenze favorevoli».
Intanto, “Avvocato di strada” cresce. Si dota di uno statuto e di un regolamento. Ai legali, sempre più numerosi, si aggiungono volontari che si occupano dei servizi di segreteria e archivio, mentre si ampliano gli orari di ricevimento e si comincia a uscire dalla sede, allestita negli spazi di “Amici di Piazza Grande”: «Anziché aspettare di essere contattati – spiega Mumolo – volevamo essere presenti nei luoghi dove stava chi aveva bisogno di noi. Perciò abbiamo creato presìdi nelle mense, come quella dell’Antoniano, e nei dormitori». Grazie ai rapporti intrecciati con tante realtà del terzo settore, poi, il modello di Bologna viene replicato: da Milano a Lecce, da Padova a Siracusa.
Le pratiche per la residenza rappresentano le parte più consistente dell’attività. Il garbuglio burocratico è stato ulteriormente complicato dal “decreto Salvini” (ormai legge dal dicembre 2018), in base al quale il permesso di soggiorno rilasciato agli stranieri richiedenti asilo non consente più d’iscriversi all’anagrafe e di avere la residenza. «Abbiamo intentato decine di cause in tutta Italia contro questa norma – dice Mumolo – e abbiamo sempre vinto. Pare che l’attuale governo intenda modificarla e i Comuni hanno iniziato ad ammorbidire la loro linea». E pure il diritto dell’immigrazione è materia con cui i volontari spesso si confrontano, tra richieste di protezione internazionale e ricorsi contro le espulsioni dal sistema di accoglienza.
A preoccupare Mumolo, adesso, è il fatto che per strada non si trovano solo persone malate, con disagi particolari o senza lavoro: «Ci finisce gente comune che non riesce a pagare l’affitto o il mutuo; genitori separati, imprenditori falliti, piccoli artigiani. Si lasciano divorare da sconforto e vergogna. Di solito, siamo noi a doverli cercare». Una storia esemplare è quella del torinese M. Dopo una separazione dolorosa, ha perso casa e contatti con la figlia: sua moglie, infatti, è emigrata in Germania e ha portato con sé la bambina. M. chiede aiuto all’associazione per affrontare il divorzio. Alla fine, riesce a ottenere un alloggio popolare, un tirocinio professionale e colloqui telefonici settimanali con sua figlia. La situazione via via migliora e lei, che all’inizio si mostrava distaccata, ricomincia a chiamarlo papà.
L’emergenza che stiamo vivendo ha aggravato e moltiplicato queste situazioni di fragilità. Durante la quarantena, “Avvocato di strada” ha puntato sul ricevimento online o telefonico. A Napoli i volontari hanno assistito un uomo ricoverato in ospedale per Covid-19. Poteva essere dimesso e trasferito in una Rsa, ma non aveva residenza e, quindi, nessuna struttura poteva accettarlo. Per risolvere l’impasse ed evitare che lui finisse in strada, i legali hanno preso ogni precauzione e l’hanno raggiunto. Un’altra questione di cui si sono occupati è l’impugnazione delle multe per violazione dell’obbligo di rimanere in casa irrogate a chi casa non ce l’ha. «Un’assurdità – commenta Mumolo – abbiamo lanciato un appello al presidente del Consiglio, ai sindaci e ai governatori di Regione, perché si smettesse di sanzionare questi soggetti e si attuassero sia un piano per dare loro un tetto sia un monitoraggio sanitario. Senza residenza si ha accesso solo alle cure urgenti, ma, in caso di sintomi riconducibili al virus, non si può andare in Pronto Soccorso. E in alcuni dormitori si sono sviluppati focolai. Occorre, allora, assegnare un medico a chi non ha dimora, perché garantire il diritto alla salute è un interesse collettivo».
La nuova sfida dell’associazione riguarda la regolarizzazione degli stranieri senza permesso di soggiorno, impiegati in nero in agricoltura o in attività domestiche. Una misura varata dal governo nel periodo dell’epidemia. «Il decreto 34 del 2020 – chiarisce Mumolo – prevede che i datori di lavoro “possono presentare istanza” per la sanatoria. Non significa che possono scegliere se farla, ma che ora è possibile farla senza conseguenze. E devono farla, altrimenti sarebbe come riesumare la schiavitù. La nostra interpretazione è in linea con quella consolidatasi nel 2002, quando l’esecutivo di centrodestra emanò un testo quasi identico all’attuale. All’epoca una direttiva ministeriale precisò che lo straniero stesso, dopo aver provato il rapporto lavorativo, potesse chiedere la regolarizzazione e ottenere nel frattempo un permesso di soggiorno di sei mesi. Ciò vale anche oggi. Di fronte all’eventuale rifiuto del datore di lavoro, noi procederemo con una diffida e, se necessario, con un ricorso. A Bari stiamo già istruendo una causa-pilota».