13 Luglio 2024

L’Appennino resistente

Spesso quando parliamo di montagne in Italia tendiamo a concentrarci, colpevolmente, sempre sulle Alpi, tenendo in scarsa considerazione gli Appennini. Una catena montuosa che si estende dal nord al sud del paese ed è capace di regalare scorci e paesaggi di rara bellezza. Il giornalista Filippo Mulazzi ha fatto un viaggio tra gli Appennini, partendo dalle vicine montagne di casa sua, quelle piacentine, raccogliendo storie di resilienza e futuro
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di Filippo Mulazzi

«Facciamo notizia solo quando crolla un ponte o viene giù una grossa frana». L’Appennino italiano si sente dimenticato e spesso mi capita di ascoltare, nelle poche osterie di paese rimaste, queste parole. Le istituzioni, la politica, anche il giornalismo, concentrano i propri sforzi dove ci sono più persone, più elettori e lettori: città, aree urbane, pianure. Se proprio si deve parlare di montagna, il poco spazio è dedicato tutto a quella Alpina, che vive di un forte turismo e ha “appeal”. Quella Appenninica è scomparsa dai radar: eppure è una larga fetta del territorio italiano. Così, da montanaro e da cronista di un quotidiano online della provincia di Piacenza, per cinque anni, ho incontrato e intervistato di persona un gruppo di residenti e resistenti in una delle zone meno popolate d’Italia che non avevano voce. 

Il paese di Solaro di Ferriere, in provincia di Piacenza, visto di notte. © don Ezio Molinari

La montagna piacentina, dislocata in più vallate, nonostante la lontananza dai servizi (sanità e scuole superiori in particolare) e la mancanza di lavoro, cerca di tenere duro. Anche perché, quando si riesce a risolvere il problema dell’occupazione, la qualità della vita risulta essere migliore: piccole comunità con relazioni strette e molta partecipazione. Per capire e raccontare ho ascoltato agricoltori, allevatori, boscaioli, imprenditori, commercianti, ambulanti. Ho passato molto tempo con i pensionati che sono ritornati al paese dopo una vita da emigrati o con i giovani che ripercorrono le orme dei nonni, traducendo in chiave moderna i lavori più tradizionali. Ma ci sono anche uomini e donne che, pur senza alcun legame di sangue con questi luoghi, decidono che questa montagna “povera” possa essere il luogo ideale per una svolta, per una ripartenza.

Il bosco di abeti in Val d’Aveto

Sono stato nel bosco con i fratelli Marco e Paolo Baldini, nati in città, che nel loro “ufficio” trascorrono più di dieci ore al giorno, da vent’anni. Marco da ragazzo faceva il trattorista in campagna, poi è passato a vendere la legna come commerciante, comprandola in alta val Nure. Ma la svolta arriva quando decide di aprire una sua impresa commerciale a cui si associa anche il fratello Paolo. La loro giornata tipo inizia presto: sveglia alle quattro e mezza, preparazione di camion, attrezzi e motoseghe e partenza per il bosco, in cui si entra sempre prima delle sei. Anche il pranzo è all’ombra degli alberi, si stacca solo quando è terminato tutto: «Se va bene alle cinque del pomeriggio, più spesso alle otto”, racconta Paolo. Il sabato lavorano mezza giornata, la domenica è per il riposo, per modo di dire; i due fratelli bruciano altre calorie con la corsa. Negli ultimi anni, tra inflazione, guerra russo-ucraina e caro energia, hanno ricevuto tantissime richieste di lavoro. «Tutte le settimane siamo costretti a dire di no a qualcuno, il mercato richiede molta legna. È la prima volta che succede in vent’anni, questa è una fase eccezionale, gli ultimi mesi sono stati contrassegnati da sbalzi di prezzo impressionanti».

E poi il lavoro aumenta anche perché «ci chiedono sempre di più fare giardinaggio e manutenzione». Dal loro punto di vista in montagna il lavoro manuale non manca: «Agricoltori, muratori, giardinieri. C’è tanto lavoro per queste attività, che sono faticose, però le opportunità ci sono». Più gente opera in montagna, più il territorio è curato. «Gli enti locali devono gestire territori immensi, altrimenti arrivano frane e smottamenti. Laddove c’è un’azienda agricola impegnata, le cunette sono pulite. Quando passa un’impresa forestale, per forza di cose i sentieri sono aperti e in ordine. Un territorio non gestito crea problemi e spese economiche in futuro. Gli Enti locali dovrebbero puntare sui giovani per gestire il territorio e prevenire».

Quando si parla di questi temi, molti confondono la custodia attiva di un territorio con il suo abbandono al selvatico. Ma bastano pochi mesi di incuria perché il bosco si mangi intere porzioni di prato, e bastano pochi anni perché un luogo prima abitato venga inghiottito dalla natura. Gli scempi in montagna sono ben altri, e hanno a che fare con chi un luogo lo distrugge, lo sfrutta, lo snatura. Il mercato della legna da ardere ha vissuto molte oscillazioni negli ultimi tempi. «Nei momenti più cari si vende a otto euro al quintale, negli anni di crisi cinque. Fino a poco tempo sembrava bandita dal mercato, perché inquinante. Poi, con la guerra e la crisi del gas, molti sono ricorsi alla legna, ricordandosi che le risorse forestali servono anche a questo». Un’attività forestale come la loro si deve scontrare con alcuni ostacoli. «I boschi sono abbandonati, molti proprietari sono emigrati all’estero. Quando un vecchio proprietario muore, con il passaggio agli eredi, le aree vengono parcellizzate. Ci ritroviamo con terreni di montagna e boschi che hanno quaranta o sessanta proprietari; come si fa a mettere tutti d’accordo sul loro utilizzo?».

I fratelli Marco e Paolo Baldini passano nei boschi dell’Appennino più di dieci ore al giorno a tagliare legna

Di fronte alle critiche per il taglio del bosco, i due fratelli le respingono: «Un bosco giovane produce più ossigeno di uno vecchio ed è più stabile dal punto di vista idrogeologico. Noi non sradichiamo le piante e un territorio gestito significa avere i boschi tagliati, altrimenti non è un bosco. Se lo abbandoni aumentano anche i rischi d’incendio nei mesi estivi, molto secchi». 

Così, a lungo andare, però, rischiamo di non avere più foreste di alberi. «Assolutamente no. Se si guarda alle foto di ottanta, settanta, sessanta anni fa la montagna piacentina era molto più pelata. I vecchi usavano molto più di noi queste risorse, anche quando c’era il carbone, conservavano il patrimonio e tagliavano maggiormente. Negli ultimi decenni i boschi sono cresciuti».

Uno scorcio del paesaggio tra il Lago Moo e Prato Grande

Delocalizzare portando un’azienda dalla montagna alla città? Mai. L’imprenditore Marco Labirio, classe 1937, fondatore della “Gamma Spa” di Bobbio (val Trebbia) che con 200 dipendenti produce componenti elettrici, si sente suggerire da anni il trasferimento in pianura per abbattere i costi di trasporto. D’altronde Piacenza è la capitale della logistica italiana, crocevia e tappa quasi obbligatoria per le merci, grazie alla sua posizione strategica. «Sento una grossa responsabilità – confida Labirio, nell’ufficio dove entra tutte le mattine alle 6 – perché se le cose vanno male, duecento famiglie devono andarsene e così non ho mai pensato di delocalizzare, significherebbe tradire la valle».

Certo, la Val Trebbia è una delle più belle d’Italia, però è lontana dal mondo produttivo e così rischia di perdere il treno dello sviluppo. «Lavoriamo in un’isola felice, a due passi dal fiume, in mezzo al verde, dove i dipendenti possono fare la pausa pranzo. A pochi metri c’è la spiaggia del Trebbia, si può fare il bagno. In città possono trascorrere le pause in questo modo? Non mi pare». Durante la chiacchierata Labirio ripete più volte il concetto di risorsa umana. «Per me è la cosa più importante. Senza le risorse umane, non sarei qui. Ci vuole rispetto, umiltà e disciplina nel lavoro, e i dipendenti vanno messi a loro agio. Mi riferisco a parcheggi, ordine, salubrità». L’economia, però, sembra andare in un’altra direzione e fregarsene di queste cose. Centralizzare, accentrare, tagliare. «È una questione di visione e la mia, per qualcuno, è forse un po’ retrò. Nel dopoguerra abbiamo spostato le risorse umane verso le città e le metropoli. In val Trebbia c’erano molti abitanti e non credo che tutti quelli emigrati siano stati meglio». 

Labirio mette in pratica, come può, la sua visione: «Ci siamo accorti che mancava un asilo nido a Bobbio. Così qualche anno fa lo abbiamo fatto noi. Le giovani coppie non dovranno più scendere nei paesi di collina». E ai figli dei suoi dipendenti la retta la paga la Gamma, azienda perlopiù al femminile. L’imprenditore ottantasettenne, nonostante i problemi che attanagliano questa valle, guarda il domani con speranza. «Ho fiducia. Bisogna sempre pensare in positivo, il domani sarà migliore e tutte le cose difficili di questo mondo hanno una soluzione. Mi auguro che l’uomo del futuro sia molto più lungimirante, ma al tempo stesso non dimentichi di guardare anche indietro, al passato, e a chi ha bisogno». Ogni volta che lo invitano a parlare gli studenti di Bobbio, ripete sempre la stessa frase: «I vostri nonni vi hanno lasciato queste ricchezze, inventatevi un lavoro per rimanere qui a goderle».

L’Appennino resistente e i suoi protagonisti”. Le storie, i problemi, i disagi, i sogni di chi vive, studia e lavora nella montagna piacentina. Con prefazione di Fabrizio Gatti (pp. 184, edito da Officine Gutenberg, uscito nel giugno 2024 e presente su tutte le piattaforme)
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