Nella notte del 3 dicembre 1984, quaranta tonnellate di isocianato di metile, un gas letale usato per fabbricare pesticidi, fuoriuscirono dai serbatoi della multinazionale americana Union Carbide a Bhopal, in India, provocando 3.828 decessi immediati e una disperata fuga dalla città. Seguiranno oltre 20.000 morti negli anni seguenti, conseguenza delle intossicazioni dell’immensa nube tossica sprigionata. La notizia sconvolse il mondo poi, come sempre accade, finì dimenticata. Ma le conseguenze di quella notte sono ancora presenti e, quarant’anni dopo, vale la pena raccontare la storia di chi non ha mai smesso di prendersi cura delle migliaia di vittime.
Satinath Sarangi, detto Sathyu, uno studente universitario che viveva in un piccolo paese dello stato indiano del Madhya Pradesh, quando sentì la notizia alla radio decise immediatamente di partire per Bhopal: «Ero sconvolto e volevo provare a fare qualcosa: possedevo rudimenti di scienza e tecnologia e sapevo l’inglese, pensai che potessi essere utile e così rimasi e smisi di studiare. L’emergenza del momento era la salute della gente, ma si trattava anche di offrire aiuto nelle varie cause legali legate al disastro». La voce di Sathyu mi arriva grazie a Renzo Garrone, un curioso del mondo e uno studioso di culture che da quasi cinquant’anni attraversa l’Oriente e organizza viaggi. Solo nell’ultimo mese Renzo è stato due volte a Bhopal, oggi una grande città di due milioni di abitanti, a raccogliere testimonianze e storie che ha voluto condividere con me e con Simone Pieranni (che lo ha ospitato nella nuova puntata del suo podcast Altri Orienti, che potete ascoltare qui).
La prima cosa che mi ha raccontato Renzo è che il disastro non si era consumato soltanto quella notte, ma era cominciato ben prima del dicembre 1984, perché i serbatoi delle acque di scarto delle lavorazioni chimiche erano stati costruiti al risparmio e per anni avevano rilasciato liquidi velenosi nella falda acquifera. Una contaminazione che non si fermò con l’incidente, ma che ha continuato a intossicare la popolazione per anni. Per questo, ancora oggi, oltre centomila persone soffrono di problemi di salute: ipertensione, diabete, menopausa precoce, malattie della pelle, tumori. Di tutti loro si occupa una piccola clinica che cura ancora oggi, gratuitamente, migliaia di malati cronici. La clinica fondata da Sathyu.
«Negli anni – mi spiega Renzo – una parte delle vittime ha ricevuto compensazioni economiche, ma assolutamente inadeguate, sia in termini di numero dei risarciti, sia sul piano delle cifre, sia considerando il fatto che queste persone hanno bisogno di assistenza continua».
Il primo sopravvissuto che Renzo ha incontrato è un ex dipendente pubblico in pensione, Khaleed ul Zama Khan, che abita ancora poco distante dallo scheletro della fabbrica. «Ero a casa e stavo dormendo – racconta –, quando alle 2.30 venni svegliato dal suono delle sirene di allarme dello stabilimento. Scesi in strada e sentii il gas levarsi dal suolo. Ebbi l’idea di prendere un pezzo di tessuto, di inzupparlo d’acqua e di mettermelo sul volto e così camminai in mezzo alla gente che fuggiva. Mi bruciavano gli occhi, la gola divenne secca, respirando sentivo la pesantezza dell’aria. Cercai di coprirmi il più possibile e continuai a camminare lentamente, mentre la gente correva tutto attorno a me. Mi sono salvato per questo. Coloro che, senza protezione, cercavano di fuggire di corsa inalarono tutto il veleno e morirono immediatamente. Ma anche la mia vita non è stata più la stessa: prima del 1984 giocavo a hockey ed ero bravo, ma dovetti smettere perché la mia pressione cominciò a salire, presi peso e cominciai ad avere problemi di digestione». Anche Khaleed è curato dalla Sambhavna Clinic, il piccolo ospedale che non si è mai dimenticato di quello che è successo.
«Quando arrivai a Bhopal – riprende a raccontare Sathyu – l’emergenza era la salute della gente. C’era un tossicologo tedesco, Max Daunderer, che aveva scoperto che con una iniezione di tiosolfato di sodio le vittime riuscivano ad espellere i veleni tramite le urine. Ma la Union Carbide non voleva che questa medicina fosse usata, istruita dai suoi legali nell’adozione di una linea difensiva secondo la quale potevano essere ammessi solo danni provocati dal contatto diretto tra il gas e il corpo. In altre parole, l’azienda poteva riconoscere che il gas avesse intaccato occhi e polmoni delle vittime, tramite inalazione, ma non che questo avesse raggiunto il sistema circolatorio, ed il sangue. Sei mesi dopo il disastro chiesi ad alcuni amici che lavoravano nella sanità a Calcutta e a Mumbai di venire a Bhopal per fondare un primo ospedale: il People’s Health Center. Avevamo la formula di quell’iniezione, che risolveva almeno in parte le cose, e la portammo in tribunale. La Corte decretò che potevamo usare il medicinale. Così cominciammo a praticare iniezioni di tiosolfato di sodio e a registrarne i benefici ottenuti dai malati. La gente respirava meglio, l’appetito ritornava, l’affaticamento diminuiva. Misurammo come cambiavano le cose il primo, il terzo, il settimo giorno. Ma dopo 17 giorni di rilevazioni sulle somministrazioni praticate a 1.300 persone la polizia fece irruzione nella clinica nel cuore della notte. Io dormivo lì e mi arrestarono con l’accusa che stessi per attentare alla vita di alcuni funzionari governativi locali. Era un pretesto, ma rimasi in galera per tre settimane. Arrestarono tutti i dottori e i volontari. Poi, piano piano, ci rilasciarono e io fui l’ultimo a uscire. La clinica era stata rasa al suolo: il nostro esperimento era durato solo 17 giorni e tutto il materiale che avevamo raccolto era sparito».
Non si persero d’animo e continuarono ad aiutare i malati, finché, dieci anni dopo il disastro, prepararono un rapporto sullo stato di salute di tutti coloro che erano stati avvelenati: «Erano stati somministrati antidolorifici in quantità enormi, moltissimi steroidi, moltissimi psicofarmaci e antibiotici con pesantissimi effetti collaterali».
Bisognava provare a pensare diversamente. Così Sathyu riuscì a pubblicare sul Guardian, il quotidiano inglese, un appello per l’apertura di una nuova clinica a Bhopal. «La risposta fu stupefacente, ottenemmo talmente tanto denaro che riuscimmo nel 1996, a 12 anni dalla catastrofe, ad aprire la Sambhavna Clinic». La parola Sambhavna, mi spiega Renzo, vuol dire “possibilità”, la possibilità che esistessero altre vie d’uscita dalla tragedia.
Puntarono su tutto ciò che il sistema statale non aveva contemplato: combinarono la medicina moderna allopatica con la medicina tradizionale indiana (l’ayurveda), e con lo yoga. «Lo yoga – chiarisce Sathyu – e la medicina ayurvedica non adoperano medicamenti invasivi e visto che le persone esposte al gas del 1984 avevano sviluppato problemi di salute a più livelli, l’idea fu quella di tentare sistemi diversi di cura. Fummo pratici e diretti: uno dei sintomi più frequenti e fonte di deperimento era la mancanza di appetito a cui la medicina moderna aveva offerto rimedi poco efficaci, ma l’erboristeria indiana è risultata più efficace. Allo stesso modo lo yoga aiuta chi continuava ad avere problemi muscolari».
La clinica, che si trova molto vicino alla vecchia fabbrica, ha il compito gigantesco di curare 120.000 malati cronici, quasi tutti poveri, che ricevono ben poco sostegno dalla sanità pubblica. I pazienti che si presentano alla clinica vengono presi in carico solo se sono in grado di dimostrare che all’epoca abitavano nella zona. Allora vengono visitati, registrati e poi ricevono un libretto sanitario che riporta le loro condizioni di salute di partenza e poi ne registra i progressi.
La Sambhavna Clinic impiega 60 persone, tra medici, infermieri e assistenti sociali attivi nella comunità. L’ospedale vive di donazioni dei singoli, avendo rifiutato da sempre, per evitare conflitti di interesse, sia il denaro pubblico che quello di aziende private. «Nel 2019 avevamo 30.000 donatori da 45 paesi. Poi però il governo – racconta Sathyu – ha sospeso la nostra abilitazione a ricevere denaro dall’estero: la nostra registrazione ufficiale che lo consentiva nel 2019 è stata cancellata. Quindi oggi dipendiamo solo da donatori indiani. Abbiamo fatto una nuova domanda ma sono passati due anni e ancora non ci hanno risposto. Adesso abbiamo meno medicine e meno medici, ma paghiamo tutti, anche se il nostro personale guadagna un trenta per cento in meno di quanto percepirebbe fuori di qui».
Ma nessuno si arrende. «Bhopal non è un caso isolato – conclude Sathyu – né geograficamente né storicamente. In Italia avete avuto Seveso e l’amianto. Quello che abbiamo cercato di mettere in piedi qui è una risposta-modello a queste evenienze e per questo continuiamo ad andare avanti».
Negli occhi di Renzo Garrone (i cui racconti possono essere letti sul suo blog) è rimasto il giro che ha fatto nel terreno circostante alla clinica in compagnia di Sathyu: «È una meraviglia che ti riconcilia con la vita: un’oasi di verde rispetto alla sporcizia e al degrado del quartiere. Gli appezzamenti sono inframezzati da laboratori di trasformazione e preparazione dei rimedi ayurvedici. Un ospedale che è anche una fattoria dove si coltivano 400 varietà di piante. Un paradiso».