Cosa sappiamo della strage di Ustica, delle cause per cui il Dc-9 dell’Itavia, partito da Bologna e diretto a Palermo, con 81 persone a bordo, si inabissò nelle acque del mar Tirreno alle 20:58 del 27 giugno 1980? Una risposta chiara, dettagliata e convincente viene da una ricercatrice milanese che quella sera non era ancora nata. Cora Ranci, venuta al mondo nel giugno del 1983, ha scritto per Laterza “Ustica, una ricostruzione storica” che uscirà in vista del quarantesimo anniversario della strage. In lei non c’è memoria storica ma ricerca storica. La prima volta che sente parlare della strage è quando da ragazzina vede il film “Il muro di gomma” di Marco Risi, poi da neolaureata all’Università di Bologna trova in bacheca un bando dell’Associazione dei parenti delle vittime che finanzia una ricerca su questo tema, lo vince e inizia a lavorarci. Quello spunto diventerà la sua tesi di dottorato e ora questo libro.
«Il momento di svolta per capire cosa – esordisce Cora Ranci – avviene nel giugno 1986, quando il fascicolo giudiziario sta per essere archiviato perché il magistrato non è in grado di determinare le cause che hanno portato alla caduta dell’aereo. Intorno all’indagine c’era stato un silenzio quasi totale: nessun dibattito parlamentare, nessuna iniziativa governativa o discussione in Consiglio dei ministri, pochissimi articoli, anche se importanti, principalmente di Andrea Purgatori sul “Corriere della Sera” che aveva indicato l’ipotesi del missile e della battaglia aerea. Insomma, disinteresse generale.
A far girare il vento e a fermare l’archiviazione è l’iniziativa di Daria Bonfietti, sorella di Alberto, una delle vittime, che convince sette illustri personalità del mondo politico e delle istituzioni a fare un appello al presidente della Repubblica Francesco Cossiga (primo ministro nei giorni della strage) affinché incalzi il governo Craxi nella ricerca della verità. Di quel gruppo facevano parte persone come Pietro Scoppola, Stefano Rodotà, Antonio Giolitti e Pietro Ingrao. La sollecitazione funziona: il governo si impegna a dare risposte e decide di recuperare il relitto dell’aereo, un’operazione molto complicata, perché i resti si trovavano a 3.500 metri di profondità, che si svolge in due tempi tra il 1987 e il 1988. Il riemergere del relitto – oggi lo si può vedere a Bologna, al Museo della memoria di Ustica – ha impresso concretezza a un caso che era stato rimosso dalla cronaca e dalla memoria. Il caso Ustica inizia lì».
Cosa sappiamo?
«Sappiamo che nei cieli del Tirreno quella sera, tra le 20:30 e le 21, c’erano diversi aerei militari.
Sappiamo che mentre il Dc-9 Itavia sorvolava la Toscana, un aereo militare, definito dai periti “aereo fantasma”, si sarebbe immesso nella sua scia, volando leggermente più basso e arretrato ma sulla stessa rotta.
Sappiamo che nella stessa zona c’era anche un Awacs statunitense, aereo radar capace di controllare e intercettare la zona.
Sappiamo di altre tracce aeree militari che appaiono tra Ponza e Ustica.
Sappiamo che c’è stata una manovra d’attacco da parte di un aereo militare definito nelle inchieste “aereo aggressore”. E qui si aprono due ipotesi, che il giudice Rosario Priore ritiene entrambe plausibili: A) l’aereo aggressore avrebbe lanciato un missile; B) questo aereo sarebbe entrato in quasi collisione incrociando il Dc-9 ad altissima velocità creando così un effetto esplosione.
Sappiamo che l’aereo è stato abbattuto durante un’operazione militare aerea.
Sappiamo che c’erano aerei e sappiamo che le autorità italiane e americane invece hanno subito dichiarato che non c’era nessuna attività militare in corso.
Sappiamo che ci sono stati 81 morti, tra cui undici bambini tra i due e i 12 anni e due neonati.
Sappiamo che partì subito un’attività militare e di intelligence per escludere l’ipotesi del missile e suggerire l’ipotesi del cedimento strutturale.
Sappiamo che è stato costruito un capro espiatorio nella compagnia aerea Itavia, a cui vennero revocate le concessioni e che andrà in fallimento.
Sappiamo che fu difficilissimo per l’autorità giudiziaria italiana recuperare le tracce radar, di cui una sola attendibile, altre presentavano buchi, altre erano già state distrutte.
Sappiamo che non c’è stata nessuna collaborazione ma un muro di reticenze da parte della Difesa.
Sappiamo che un processo non c’è mai stato, perché gli autori del reato sono rimasti ignoti.
Sappiamo che non c’è nessun colpevole».
Cora Ranci lavora molto sullo scenario storico-politico, perché «sappiamo che i fatti prendono una luce diversa quando vengono posti nel contesto»: in quel 1980 «l’Urss aveva invaso l’Afghanistan, si parlava di seconda guerra fredda, a maggio era morto il colonnello Tito in Jugoslavia, c’era un alto livello di tensione nell’area del Mediterraneo, dove sovietici e americani avevano aumentato la loro presenza navale militare. I rapporti della Libia di Gheddafi con Usa e Francia erano in netto peggioramento ed è da ricordare che nel marzo del 1980 due caccia libici avevano tentato di abbattere un caccia francese al largo delle coste tunisine.
L’Italia invece aveva relazioni politiche ed economiche ambigue e ambivalenti con la Libia, che possedeva il dieci per cento della Fiat e aveva appena firmato contratti petroliferi con noi. Tanto che il giudice Priore ha anche scoperto un accordo segreto che permetteva ai jet libici di andare in aeroporti jugoslavi per fare manutenzione passando attraverso l’Italia, sfruttando un corridoio scoperto dai nostri radar. Possiamo supporre che questo agli Usa non andasse a genio. Infine c’è da ricordare che il 18 luglio 1980 un aereo militare libico fu trovato sulla Sila. Non si sa quando sia caduto e non ci sono elementi per sostenere che sia precipitato la notte di Ustica. Ma sappiamo che un mig libico è finito in Calabria e che aerei libici entravano nel nostro spazio aereo».
Cosa non sappiamo?
«Non sappiamo le nazionalità degli aerei, alcuni sicuramente americani, altri si è ipotizzato fossero francesi perché ci sono tracce che sembrano tornare verso la Corsica. Non sappiamo cosa sia successo e lo scopo delle operazioni militari. Non sappiamo quale ruolo abbia avuto l’Italia. Non sappiamo se abbia accettato passivamente che 81 suoi cittadini morissero o se abbia coscientemente difeso la ragione di Stato».
Cosa possiamo sperare di sapere?
«Non ho molte speranze negli archivi, perché le comunicazioni di quella notte non saranno state trascritte. Ci sono opacità nella documentazione francese e molti omissis dagli archivi americani. Solo con una volontà forte del governo italiano per ottenere una fattiva collaborazione dai Paesi alleati si potrebbero fare passi avanti. Per scardinare un segreto politico non basta la via giudiziaria, ci vuole la volontà politica. Il passare del tempo potrebbe aiutare, perché oggi viviamo in un mondo completamente diverso».
Cosa ti lascia questa tua lunga ricerca?
«Amarezza e speranza. Perché se da un lato ci dice quanto può arrivare a costare la tutela della ragion di Stato, e questo è triste e fa rabbia, dall’altro c’è il lungo percorso dell’impegno per la verità della società civile. Anche i singoli cittadini, di fronte alle grandi tragedie della storia, possono esercitare un ruolo civile che può essere decisivo e importante».
Cora ha lasciato il mondo universitario dopo due anni di contratto di ricerca, lavora come autrice per un programma radiofonico di inchieste sulla sanità pubblica a Radio popolare a Milano e ora ha scelto di insegnare storia e filosofia nei licei: «L’aspetto che mi gratifica di più è il contatto con gli studenti, amo provare a spiegare e rendere semplici e comprensibili le cose». Con il dramma di Ustica c’è riuscita.