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6 Ottobre 2022

La ricetta della vita

Franco era uno chef di successo, appassionato del suo lavoro. Poi la pandemia l’ha fermato per un po’ e gli ha regalato un figlio che però vedeva crescere solo nel letto, quando, rientrando tardi dal lavoro, gli dava la buonanotte senza svegliarlo. Quella che leggerete è la storia di una scelta che hanno fatto in molti, così tanti da essere diventati un fenomeno chiamato “Great Resignation”
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«Tornavo a casa all’una di notte, entravo in camera di mio figlio e mi appoggiavo al suo lettino a osservarlo mentre dormiva, ascoltavo il suo respiro, cercavo i cambiamenti nel suo corpo, vedevo che era sempre un pochino più lungo e sentivo un dolore dentro perché lo stavo vedendo crescere solo nel letto. Finché una mattina alle otto e mezza, l’ora in cui uscivo per andare a lavorare, mentre ero per strada ho chiamato mio padre e gli ho detto: “Ma ne vale veramente la pena?”. Lui che nella vita ha fatto il ferroviere, capotreno alla Circumvesuviana, e spesso usciva alle 4:30, mi ha risposto soltanto: “Io ho perso gli anni migliori della vostra vita”. È bastata quella frase e ho capito che cosa devo fare: una scelta. E non è stata una scelta semplice». Franco Aliberti, 37 anni, una carriera prodigiosa nelle cucine dei migliori ristoranti d’Italia, è uno dei tanti che nell’ultimo anno hanno lasciato volontariamente il loro posto di lavoro. È una tessera di quel grande mosaico che viene chiamato “Great Resignation”, le grandi dimissioni, un fenomeno immenso che investe tutto l’Occidente, che è cominciato lo scorso anno e di cui, in questi mesi, si sono viste con chiarezza le conseguenze: mancanza di personale nei ristoranti, negli alberghi, negli aeroporti, nei supermercati, ma anche in settori ad alta tecnologia.

Filippo, il figlio di Franco Aliberti e Lisa Casali (© Lisa Casali)

Ogni volta che leggo le cifre, le statistiche di chi si licenzia dal lavoro, mi interrogo su che cosa sia cambiato, sulle motivazioni di questa scelta. Certamente non c’è una sola ragione, sono molte, e hanno a che fare con gli stipendi, i carichi di lavoro, l’insoddisfazione, il desiderio di realizzazione personale e la ricerca di un equilibrio diverso tra lavoro e vita privata. Io sono convinto che la pandemia, con i suoi lockdown forzati, abbia lasciato un segno profondo su ognuno di noi. Ci ha dato un tempo lungo per pensare, ci ha fatto vivere la casa come non era mai successo prima, ha fatto riscoprire a molti ritmi familiari dimenticati. Oggi nei colloqui di lavoro e in ogni azienda il tema delle prospettive, dello smart working, di quanto si possa essere elastici e lavorare da casa, sono diventati centrali e cruciali: sono tante le persone che non vogliono tornare in ufficio dal lunedì mattina al venerdì sera o che non vogliono più lavorare nei fine settimana o la notte. 
Di fronte a questo fenomeno cercavo una persona che mi raccontasse la sua storia. Ho incontrato Franco e ho passato una mattina a parlare con lui nel retro di un piccolo bar sul Naviglio Grande a Milano.

«La scelta che ho fatto potrebbe essere considerata azzardata, perché ho 37 anni, ero nel pieno della carriera e facevo un lavoro che amo e che continua ad essere la mia passione. Ma quando sono tornato in cucina, dopo i mesi di stop forzato, non ci ho ritrovato quella gioia che mi aveva accompagnato per anni. Allora ho cominciato a guardarmi da fuori e osservando i ritmi, lo stress, gli orari, la competizione per avere riconoscimenti, la pressione delle guide, delle stelle, della televisione, ho sentito il disagio di un meccanismo e di un sistema che ha perso felicità». 
Prima di incontrare Franco ho studiato la sua carriera, i maestri che ha avuto, da Gualtiero Marchesi a Massimiliano Alajmo fino a Massimo Bottura, i ristoranti che ha guidato con successo, i riconoscimenti e i premi ricevuti fin da giovanissimo, e mi è stato chiaro che è uno che la Serie A della grande cucina la conosce alla perfezione, perché ci ha giocato per vent’anni. «Non sputo nel piatto in cui ho mangiato, ne ho grande rispetto e riconoscenza, ma se tu oggi entri in una cucina di alto livello sembra di stare in una sala operatoria, non tra cuochi ma tra chirurghi che se sbagliano qualcosa il paziente muore. E questo non va bene, perché il nostro è un lavoro fatto di fatica ma anche di arte e di creatività e per cucinare bene bisogna essere felici: quello che hai dentro lo trasmetti nel piatto».

Franco Aliberti ai tempi in cui lavorava all’Osteria Francescana di Massimo Bottura 
(© Paolo Terzi)

Franco guarda indietro e mi racconta quando da ragazzo, appena entrato nelle cucine, l’immagine del cuoco era completamente diversa: «Mi ricordo che se una ragazza mi portava a casa per presentarmi i suoi genitori, io avevo sempre un po’ di timore a dire che facevo il cuoco, non era un lavoro luccicante e poi ai tempi c’erano tante leggende, si diceva che gli chef fossero tutti alcolizzati, un po’ drogati e anche un po’ puttanieri. Poi la Tv ci ha ripulito e siamo diventati fighi, ma ha anche messo in cucina una pressione pazzesca».
Franco, che è nato a Scafati alle spalle di Pompei, aveva già capito da piccolo cosa avrebbe voluto fare da grande, merito di sua madre che lo aveva messo a giocare in cucina: «Producevamo tutto in casa, dai pelati alle marmellate, alle confetture, alle conserve. Non vedevo l’ora che arrivasse fine agosto quando si raccoglievano i pomodori. Le prime volte ero talmente piccolo che mi mettevano nella bagnarola dell’acqua, per me come una piscina, a lavare i pomodori. Mamma mi ha sempre dato qualcosa in mano da lavorare, la pasta della pizza, del pane, perfino del panettone. E mi portava in campagna: mi ha insegnato a riconoscere le piante, i profumi, ad avere il senso del tempo e della fatica che devi fare per avere quel chilo di pomodori. Tutto questo mi è rimasto dentro e ha creato il mio palato». 

Così, dopo le medie, sceglie la scuola alberghiera a Nocera Inferiore e per capire cos’è il lavoro, la domenica va a lavorare in una pasticceria di Angri, dalle quattro e mezza del mattino a mezzogiorno. «Il mio compito era di mettere i mignon nella carta, tre o quattromila pezzi ogni domenica, e alla fine mi pagavano con un vassoio di paste. Io ero felice perché portavo a casa qualcosa che mi ero guadagnato e perché osservavo tutto: grazie a quelle domeniche mattina mi sono innamorato della pasticceria». Franco si ferma, pensa un attimo a quel tempo e prende un tono ironico: «Se oggi metti a lavorare un ragazzino prima dell’alba e poi invece di pagarlo gli dai un vassoio di pasticcini, come minimo finisci in galera…».

Una foto ritratto di Franco Aliberti da bambino

A sedici anni, prima di iniziare la terza, convince i genitori ad iscriverlo a Salsomaggiore, dove già studiava il fratello e dove poteva specializzarsi nei dolci: «La pasticceria mi ha sempre attirato perché è una scienza applicata, non ti permette di sbagliare. È più facile fare una pastasciutta: se fai un errore lo puoi recuperare. La pasticceria invece è una sequenza chimica e scientifica di reazioni che avvengono, e se non le conosci raramente ti salvi. Però ti dà un insegnamento molto preciso e molto etico. Per questo mi piace». 
Uno dei suoi insegnanti era Massimo Spigaroli, famoso produttore di culatelli e proprietario del ristorante “Al Cavallino Bianco”, che lo nota e gli chiede se vuole andare a lavorare da lui il fine settimana. «Non avevo la patente, perché non ero ancora maggiorenne, così prendevo il treno e scendevo a Busseto. Spigaroli, a dispetto della sua immagine burbera, mi veniva sempre a prendere alla stazione e mi portava al ristorante. Sono partito dagli scantinati, imparando dalle vecchie signore a pulire le anguille elettriche e i pesci di fiume, a preparare le anatre e le oche per la cucina, poi sono passato di livello e sono diventato l’addetto alle muffe del culatello e degli insaccati, dovevo pulirli tutti con uno straccio bagnato col vino». Il suo iter è stato quello che in Giappone i maestri di sushi fanno fare agli allievi: prima di toccare il pesce per un anno gli fanno pulire i coltelli e la cucina.

Dopo il diploma va a fare un’esperienza a Parigi, dove tutto è militare, le brigate di cucina sono suddivise in reparti, la disciplina è ferrea e c’è un nonnismo pesante. «Non avevo i soldi per affittare una stanza, ma per orgoglio non volevo dirlo ai miei e così dormivo negli alberghi per camionisti, dove puoi stare solo una notte e hai la camera e il bagno in comune».
Quando torna in Italia si rimette a studiare. Sogna l’Alma, la scuola di cucina di Gualtiero Marchesi, ma la retta non è alla sua portata. A risolvere la situazione ci pensa ancora Spigaroli: può frequentare, ma in cambio deve lavorare come aiuto agli chef che tengono i corsi.
La sua carriera sarà piena di grandi ristoranti, ma la sua cifra particolare emergerà con il primo che guiderà in autonomia: “Evviva” a Riccione, una cucina a “scarto zero”. «Provengo da una famiglia molto sensibile alla materia prima, a casa mia non si è mai buttato via niente. La mia sfida era non sprecare e dimostrare che molto di ciò che si scarta è commestibile. Prendi le foglie esterne del cavolfiore, quelle che lo proteggono durante le intemperie, con il freddo e la pioggia. Sono le più rovinate ma anche le più importanti e invece di buttarle ci puoi fare tantissime cose, da un estratto a una pasta fresca, a una gratinatura».

Franco Aliberti oggi

Il tema dello scarto e del recupero sarà quello centrale di Expo 2015 e in quel luogo e in quei giorni la vita di Franco cambierà, nel momento in cui incontrerà una persona che ha la sua stessa filosofia di vita: «Venni invitato a registrare la puntata di una trasmissione televisiva insieme ad una scienziata ambientale che conoscevo per i suoi libri, Lisa Casali. Appena lei si mise a parlare io cominciai a sentire le farfalle nello stomaco». Poco tempo dopo comincia la loro vita insieme, fatta soprattutto di lavoro, finché non arriva il virus che ci ha fermato tutti: «Per me fare la colazione a casa è stata una cosa completamente nuova, non l’avevo mai fatta. Oppure stare seduto sulle scale e guardare il tramonto, preparare la cena, cucinare per la mia famiglia» Lisa rimane incinta, e a giugno del 2020 nasce Filippo

Quando Filippo non ha nemmeno nove mesi, Franco parte per una nuova avventura: la direzione di un ristorante e di un bistrot dentro un grande albergo milanese, tre turni ogni giorno, dalla colazione alla cena. «Andavo via di casa alle otto e tornavo all’una di notte. Il pomeriggio staccavo due o tre ore, ma non facevo in tempo a tornare a casa, così rimanevo tutto il giorno al ristorante. Ho sempre fatto così, ho sempre dedicato tutto al mio lavoro e prima della pandemia mi sembrava normale, ma a un certo punto qualcosa si è rotto». Vede quel bambino “crescere nel lettino”, non condivide nessun pezzo di quotidianità con la sua famiglia. Durante il lockdown, ha riempito il terrazzo di ogni genere di piante, ortaggi e alberi da frutta, in una vecchia vasca da bagno produce il suo basilico e ha messo l’irrigazione automatica e tre telecamere. Lo controlla in remoto ogni giorno dal ristorante perché tempo di curarlo non ne ha.
Dopo sei mesi, non ce la fa più a vivere in quel modo e decide di abbandonare tutto. Seguono polemiche che finiscono sui giornali, ma lui oggi è sereno e riconoscente con tutti quelli con cui ha lavorato. «Adesso faccio il papà e ho il tempo per scrivere e condividere quello che penso della mia cucina. A giugno è uscito un mio libro che si chiama “Uno”, contiene sessanta ricette che ti insegnano a cucinare con un solo ingrediente, e sono tutte a base di verdure». 

Il libro di Franco Aliberti, “Uno”, edito da Gribaudo

Ora si dedica a progetti speciali, tiene corsi e cerca di costruire un futuro più sostenibile, convinto che la sostenibilità parta dal modo in cui ognuno di noi vive. Quest’estate Franco, Lisa e Filippo hanno viaggiato per tre mesi su un Van attrezzato. Un’avventura di 15mila chilometri tra Svezia, Norvegia e Finlandia, un’immersione nella natura, in luoghi disabitati e selvaggi. Per farmi vedere cosa stavano facendo mi ha mandato su WhatsApp un po’ di foto.

Franco, Lisa e Filippo a bordo del Van con cui hanno viaggiato questa estate
Lo scorcio di uno dei paesaggi che hanno incontrato durante la loro avventura di 15mila chilometri

Lei ogni giorno faceva smart working, ci riusciva perché ovunque, anche nei posti più sperduti, trovava il segnale. Lui controllava l’orto e osservava gli uccelli che, serenamente, si mangiavano la frutta.

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