Gli alberi più antichi, quelli che resistono da centinaia di anni, sono quelli che sono cresciuti più lentamente e in modo paziente. Non sono i più alti, i più grandi o i più folti e spesso la loro forza è di essere nati in ambienti estremi, difficili e isolati. Il paradosso della longevità è che per vivere molto a lungo bisogna sfidare le avversità ed essere resilienti.
Ho incominciato a ragionare sul segreto delle piante secolari mentre scrivevo “Il tempo del bosco”, mentre camminavo sul crinale che segna il confine tra la Toscana e la Romagna, a Sasso Fratino nelle foreste casentinesi. Lì ho scoperto che gli alberi che si trovano sul crinale sono i più antichi. Ci sono esemplari che arrivano dai tempi del Rinascimento, che esistevano già quando erano ancora in vita Michelangelo, Leonardo Da Vinci e Raffaello. La cosa più affascinante è che queste piante non sono nate baciate dalla fortuna ma, anzi, sono partite come le più svantaggiate. Crescere sul crinale significa essere continuamente esposte ai venti, alla galaverna, all’umidità che ghiaccia sui rami e li spezza. Si sono sviluppate in condizioni climatiche avverse e questo le ha rese le più resilienti e resistenti. C’è una ricerca affascinante di due professori dell’università della Tuscia, che si chiamano Gianluca Piovesan e Alfredo de Filippo, che spiega come questi alberi capaci di superare i cinque secoli di vita non siano i più grandi e nemmeno i più alti, al massimo arrivano a 20-25 metri, ma quelli che sono cresciuti lentamente, per proteggersi dalle intemperie e per avere tempo di adattarsi.
Per farmi raccontare questa storia sono andato da Gianluca Piovesan e siamo partiti da lontano, dalla sua infanzia: «Sono nato a Bagnaia, in provincia di Viterbo, e da bambino ogni pomeriggio andavo a Villa Lante, un luogo meraviglioso pensato a metà del Cinquecento. Uno dei primi esempi di giardino rinascimentale, da un lato c’era una parte con le piante potate e sagomate, con le fontane e i giochi d’acqua, dall’altra una selva cupa, un bosco selvaggio di lecci. Io amavo quella parte e da bambino mi arrampicavo su alberi molto antichi. Ho avuto la fortuna di crescere sugli alberi, di entrare nelle chiome, di osservare il mondo da un’altra prospettiva». Potremmo dire che Gianluca, che adesso ha 58 anni ed è un professore universitario, non è mai sceso da quei rami e ha dedicato la sua vita a studiarne i segreti.
Da adolescente Gianluca sognava di fare il pilota, come suo padre che era elicotterista all’aeronautica, ma dopo la maturità vinse la voglia di entrare nel corpo forestale come il nonno – «Era un maresciallo che ha contribuito a riforestare l’Italia, negli anni Cinquanta e Sessanta» – e si iscrisse alla facoltà agraria di scienze forestali che aveva appena aperto a Viterbo.
«Non mi sono mai pentito di aver cambiato strada, anzi oggi non amo nemmeno viaggiare in aereo, per colpa di un terribile atterraggio in Norvegia dove ero andato nel 1987 con una borsa di studio a visitare le foreste boreali».
Anche la famiglia di sua madre aveva a che fare con i boschi, ma non li piantava e nemmeno li proteggeva: li tagliava. «Era una famiglia di boscaioli, i miei nonni facevano le traversine per i binari ferroviari. Passarono molto tempo sul Pollino in Calabria a disboscare. Io ci sono tornato un secolo dopo a studiare gli alberi sopravvissuti ai tagli di mio nonno e di quelli della sua generazione. E pensare che fino all’inizio del Novecento c’erano grandi foreste primarie in Calabria, Basilicata e Abruzzo. Noi oggi diciamo che non bisogna tagliare l’Amazzonia, ma noi lo abbiamo già fatto».
Oggi Gianluca studia i lembi rimasti di quelle foreste e proprio nel Pollino, in provincia di Cosenza, si trova l’albero più vecchio d’Europa datato con metodo scientifico: si chiama Italus e ha 1.236 anni. È nato nel 788, quando Carlo Magno era solo re dei Franchi ma non era stato ancora incoronato imperatore. «Per datarlo abbiamo usato un metodo innovativo, combinando la dendrocronologia, lo studio degli anelli degli alberi attraverso il carotaggio, con la datazione al radiocarbonio».
Gianluca Piovesan viaggia l’Italia a studiare questi lembi di foresta e questi campioni di longevità perché «la ricerca scientifica sta mostrando che questa natura è la più resiliente al cambiamento climatico rispetto al bosco gestito dall’uomo». La troviamo in Calabria, non solo nel Pollino ma anche in Aspromonte dove vive Demetra, la quercia di clima temperato più antica al mondo (ha 930 anni); in Puglia nel Gargano c’è la Foresta Umbra, composta di faggi e tassi (si chiama “umbra” dal latino: cupa, ombrosa); in Abruzzo ci sono le faggete del Parco nazionale e in Toscana le foreste casentinesi sono un grande serbatoio di alberi antichi.
«Non dobbiamo disturbare queste foreste, sono dei veri e propri condizionatori per gli animali, difendono il territorio e la fauna dalle ondate di calore, ma anzi riforestare per ampliare questi lembi».
I più antichi di questi alberi sono più bassi e contorti degli altri, a guardarli mi ricordano le donne centenarie dell’Ogliastra in Sardegna, piccole e ricurve ma fortissime. «Più l’albero cresce ed è grande e più ha possibilità di essere colpito da vento forte e fulmini, chi è più lento e sta al coperto ha tempo di rafforzarsi. Insomma, andare veloce non è sempre conveniente».
Gianluca mi racconta che le sequoie più grandi al mondo, quelle con un diametro superiore ai 6 metri, non sono mai le più vecchie e che le dieci più longeve hanno al massimo 4 metri di diametro. «Nello stesso modo i faggi che raggiungono i 50 metri di altezza non diventano mai vecchissimi, possono arrivare a duecento anni, mentre i faggi di alta montagna che crescono fino a 12-15 metri possono vivere molto più a lungo».
L’ultima frontiera del viaggio e delle ricerche di Gianluca Piovesan sono gli alberi da frutto: ulivi, peri, castagni, gelsi e mandorli. «In regioni come la Basilicata ce ne sono una grande quantità che hanno cinque o sei secoli e che continuano a dare frutti, così oggi possiamo sentire il gusto che una pera o una castagna avevano al tempo di Leonardo. Perché è una frutta molto differente, con sapori diversi, molto più intensi e più ricchi e con proprietà nutritive superiori, soprattutto antiossidanti».
Piante di cui i contadini si prendono cura da secoli e alle quali si vorrebbe dedicare un percorso: il “cammino dei patriarchi da frutto”.
«Questi alberi antichi – conclude Gianluca – non sono solo degli archivi naturali unici per ricostruire la storia dell’ambiente, ma sono molto di più e perderli è come perdere libri di storia del Rinascimento e Medioevo».