13 Ottobre 2022

La donna che restituisce i nomi

Cristina Cattaneo è la direttrice del Labanof, il Laboratorio di antropologia e odontologia forense. Un piccolo centro dove si interrogano i corpi, quelli morti e quelli vivi, per dare un’identità agli scomparsi senza nome e giustizia a chi è vittima di crimini. L’ho incontrata e dalla nostra conversazione è nato un podcast che racconta come non ci sia pace senza un nome e un cognome
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Ogni anno, a Milano, tre persone vengono sepolte sotto una lapide senza nome, sono morti che nessuno ha reclamato, a cui nessuno ha fatto il funerale, sono sconosciuti che qualcuno forse sta cercando da un’altra parte, sono fantasmi. C’è una donna che non si rassegna all’idea che nessuno li possa piangere, che pensa che l’identità sia un diritto finale che deve essere assicurato a tutti. Si chiama Cristina Cattaneo, è professoressa ordinaria di Medicina legale all’Università di Milano e, grazie al suo lavoro, i sepolti senza nome sono solo tre, perché a morire in solitudine, senza documenti, senza nessun indizio, sono molti di più, almeno una ventina all’anno. Ma un lavoro investigativo straordinario, fatto in un piccolo laboratorio vicino all’obitorio di Milano, restituisce un nome, un cognome e una storia a queste persone. Questo laboratorio si chiama Labanof, Laboratorio di antropologia e odontologia forense.

La professoressa Cristina Cattaneo, direttrice del Labanof, Laboratorio di antropologia e odontologia forense

L’ufficio di Cristina Cattaneo è pieno di oggetti, libri, ritagli di giornale, piante, calchi di volti, fotografie di scheletri, tazze di caffè. Cristina ha i capelli rossi e uno sguardo velocissimo, si capisce che pensa a tre cose contemporaneamente e che il tempo è troppo poco per tutto quello che vorrebbe fare. Fin da bambina è stata affascinata dall’idea di ricostruire le storie, prima si è laureata in Biologia e poi in Medicina e mentre studiava ha capito che, attraverso la scienza, poteva mettere insieme i frammenti necessari per ricostruire la vita delle persone morte, non solo del presente: «Ho iniziato a fare questa attività lavorando su materiale archeologico ancor prima di diventare medico. Facevo l’antropologa studiando resti scheletrici per ricostruire le storie di vite antiche, e mi affascinava tantissimo capire le malattie, le età e le cause della loro morte. La storia è scritta nelle ossa». Poi Cristina è diventata medico e ha cominciato a focalizzarsi sulle questioni sociali, a immaginare come la scienza potesse aiutare la giustizia: «E lì ho iniziato a lavorare come medico legale sui corpi per ricostruire le cause di morte e l’identità, perché molto spesso i morti recenti si presentano senza un nome, senza un cognome. Un mondo sconosciuto quasi a tutti».

Uno dei volti ricostruiti nel laboratorio di antropologia e odontologia forense

Uno dei primi casi che si trovò di fronte, quello che le fece capire l’enormità del problema, era quello di una bellissima ragazza di 17-18 anni che, per una delusione d’amore, si era suicidata buttandosi dall’ultimo piano di un palazzo del centro di Milano. Non aveva documenti e rimase in una cella frigorifera dell’obitorio per otto mesi, rischiando di essere sepolta sotto una lapide con su scritto “Sconosciuto”. Una madre di Roma aveva denunciato la sparizione della figlia, ma non c’era nessun automatismo per mettere insieme gli scomparsi da un lato e i corpi senza nome dall’altro.

«È un lavoro fondamentale per la dignità dei morti, per restituire loro una storia, ma anche e soprattutto per la serenità dei vivi. Per le madri che cercano per decenni i figli scomparsi, per i figli che cercano per anni il padre, pensando di essere stati abbandonati da bambini. Invece magari quel padre è morto, è stato trovato, ma non è stato identificato. Chi non trova una persona scomparsa e non la può piangere finisce in un limbo che gli inglesi chiamano “perdita ambigua”, significa girare e non trovare mai l’inizio di quel percorso del lutto che è fondamentale per mantenere la salute mentale».

Proprio per aiutare le famiglie che cercano gli scomparsi, sul sito del Labanof vengono pubblicate le ricostruzioni del volto di tutti i cadaveri senza un’identità.

La nuova punta della mia serie podcast Altre/Storie

Cristina mi ha fatto un lungo racconto di come funziona il suo laboratorio che potete ascoltare nella nuova puntata del podcast Altre/Storie, in cui mi spiega il lavoro che fanno, insieme ad un archeologo, per risolvere i casi irrisolti del passato, ma anche i drammi del presente. «Oggi ci occupiamo di leggere il corpo in tutte le sue forme, dallo scheletro – per restituire l’identità e per ricostruire un crimine – ai corpi dei vivi per poter identificare i segni di violenza o di un reato che è stato commesso. Inoltre, dal 2013 collaboriamo per dare un nome ai migranti morti in mare».

Il 3 Ottobre 2013 davanti all’isola di Lampedusa persero la vita 368 persone tra bambini, donne, uomini che arrivavano da Siria e Eritrea, di fronte a quella tragedia il neonato ufficio del commissario straordinario per le persone scomparse, guidato dal prefetto Vittorio Piscitelli, decise di provare a dare un nome a quelle vittime. «C’era grande scetticismo e tutti ci ripetevano: “Nessuno verrà a cercarli”. Noi lanciammo una chiamata attraverso le ambasciate e, nonostante fosse passato già un anno dal naufragio, si presentarono ben ottanta famiglie. C’era gente che dormiva sulle panchine, in macchina, fuori dall’istituto pur di venire a darci qualcosa. Era commovente, portavano ciocche di capelli, frammenti di unghie e tutto ciò che pensavano potesse essere utile per identificare un figlio, un fratello, una moglie. Grazie a quelle famiglie riuscimmo a restituire l’identità a cinquanta persone. Un risultato incredibile che potrebbe diventare una regola se solo si mettessero in comunicazione le banche dati che raccolgono i dati dei morti in mare con quelle delle segnalazioni degli scomparsi fatte nei vari Paesi europei. Basterebbe poco, è solo una questione di volontà».

Una parte della facciata del MUSA, il Museo universitario di Scienze antropologiche, realizzata dagli allievi dello IED

Negli spazi universitari che ospitano il Labanof, mercoledì 19 inaugurerà il primo nucleo del MUSA, il Museo universitario di Scienze antropologiche, mediche, forensi per i diritti umani. Il museo, che si ingrandirà negli anni, è nato grazie al sostegno della Fondazione Cariplo, dalla Fondazione Isacchi Samaja e da Terres des Hommes, due realtà che operano in difesa delle persone fragili e dei minori in difficoltà. «È un esperimento per raccontare quello che la scienza può fare ed è diviso in quattro parti: la prima ha un’anima archeologica, parte dagli scheletri antichi per cercare di costruire una storia di Milano attraverso i suoi abitanti, dall’epoca romana ad oggi. Poi c’è la parte sull’identità, dove attraverso video e animazioni si spiega come si fa a identificare un corpo, c’è una parte crime focalizzata sui sopralluoghi e le autopsie e l’ultima parte è dedicata a far vedere come la scienza può aiutare le categorie vulnerabili, dai bambini a chi è stato vittima di tortura. Infine, c’è un piccolo ricordo della tragedia del 18 aprile 2015, in una stanza buia si cercherà di raccontare il naufragio più tragico di cui abbiamo notizia, che costò la vita a un migliaio di persone». 

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