Settantadue pagine pesanti come un macigno. Settantadue pagine in cui si esclude la responsabilità penale di una singola persona, ma al contempo si ribadisce la colpa storica di uno Stato. Sono le motivazioni della sentenza di assoluzione a favore di Vitaly Markiv, depositate la scorsa settimana dalla prima sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano. Era il 3 novembre 2020, quando il collegio presieduto dalla giudice Giovanna Ichino stabilì che il sergente della Guardia nazionale ucraina non potesse essere condannato per l’omicidio di Andrea Rocchelli. La pronuncia cancellò i 24 anni di reclusione inflittigli al termine del processo di primo grado e decretò la sua scarcerazione dopo una lunga custodia cautelare. Adesso, però, sappiamo che la prova certa della sua colpevolezza è mancata per un vizio di forma, mentre la ricostruzione generale dei fatti è confermata.
Il 24 maggio 2014, Andrea Rocchelli si trovava nei pressi di Sloviansk, nella regione ucraina del Donbass, per svolgere il suo mestiere di fotoreporter e documentare la vita dei civili intrappolati nel conflitto tra separatisti filorussi e forze governative. Quel pomeriggio, vicino alla ferrovia che segnava la linea del fronte, fu ucciso da granate di mortaio. Insieme a lui morì Andrej Mironov, attivista russo per i diritti umani, guida e amico di Rocchelli. Sopravvisse il fotografo francese William Roguelon, che stava con loro e riportò gravi ferite. Secondo quanto accertato in entrambi i gradi di giudizio, a fare fuoco sarebbero stati la Guardia nazionale e l’Esercito ucraini. Dalla collina del Karachun, dov’erano appostati a difesa di un’antenna televisiva, avrebbero osservato i movimenti dei giornalisti, attivando l’artiglieria leggera per allontanarli e poi quella pesante per colpirli.
Anche Markiv faceva parte delle truppe di Kiev. Il suo compito era di monitorare il fronte, comunicare ai vertici gerarchici la presenza di individui sospetti, attendere l’ordine di sparare con la mitragliatrice o fornire le coordinate affinché i mortaisti riuscissero a centrare gli obiettivi. Una catena di comando che, per sua stessa ammissione, si sarebbe innescata pure il giorno della morte di Rocchelli e Mironov. Tuttavia, per poterlo condannare per concorso in omicidio, occorreva dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio che lui prestasse servizio proprio nell’ora in cui è avvenuto l’agguato e nella postazione da cui le vittime sono state avvistate. Circostanze che i giudici milanesi non hanno ritenuto provate, a causa dell’inutilizzabilità di alcune testimonianze rese in primo grado da esponenti della Guardia nazionale. Che, evidentemente, avrebbero offerto elementi rilevanti.
Si trattava, infatti, di superiori diretti dell’imputato e di suoi commilitoni assegnati alla medesima postazione o impegnati nei medesimi turni. Per la Corte, nei loro confronti vi erano, o potevano esservi sin dall’inizio, indizi di correità: dunque, avrebbero dovuto essere esaminati solo con le opportune tutele previste dal codice di procedura penale (la presenza di un difensore, la facoltà di non rispondere) ed essere avvertiti che, a seguito delle loro dichiarazioni, sarebbero potuti finire sotto indagine. Senza tali accorgimenti per evitare che si auto-incriminassero, è come se le testimonianze di quattro comandanti e quattro soldati non fossero mai esistite ai fini del processo. Tra questi ufficiali, peraltro, c’è Bogdan Matkivskyi: la Procura di Pavia ha notificato l’avviso di conclusione dell’inchiesta-bis per concorso in omicidio a suo carico, ma lui si è rifiutato di ritirarlo.
La sentenza passa a delineare la posizione delle autorità di Kiev. Markiv appartiene alla Guardia nazionale ucraina e, all’epoca, era impiegato nella repressione dei moti separatisti, «quindi in operazioni palesemente espressione dell’esercizio di attività iure imperii» (cioè della sovranità statale). Su chiunque fosse arruolato incombeva il rispetto delle Convenzioni di Ginevra del 1949 per la protezione delle vittime di guerra: «I giornalisti che svolgono missioni professionali pericolose nelle zone del conflitto – vi si legge – saranno considerati come persone civili e saranno protetti in quanto tali». Invece, i giudici menzionano l’intensità e la direzione precisa dei colpi sparati a dimostrazione del fatto che le forze ucraine intendessero eliminare Rocchelli, Mironov e Roguelon, nonostante fossero riconoscibili come fotoreporter.
«L’attacco – proseguono le motivazioni – ha avuto luogo senza alcuna provocazione e offensiva né da parte loro né da parte dei filorussi. È vero che la zona era sulla linea di tiro tra gli schieramenti, ma i giornalisti di guerra raggiungono proprio le linee del fronte per constatare e poi raccontare all’opinione pubblica ciò che avviene durante i conflitti. Si è trattato, quindi, di un ordine illegittimamente dato dai comandanti, perché in violazione delle norme che mirano alla protezione dei civili, ed eseguito dai militari». Pertanto, è corretto che lo Stato ucraino sia stato citato come responsabile civile, anche se la condanna in primo grado è venuta meno automaticamente con la successiva assoluzione dell’imputato. Come stabilito da Corte costituzionale e Cassazione, «non può essere garantita l’immunità a uno Stato in presenza di comportamenti di tale gravità da configurarsi quali crimini contro l’umanità che, in quanto lesivi di quei valori universali di rispetto della dignità umana, trascendono gli interessi delle singole comunità statali».
D’altro canto, i giudici d’appello hanno respinto con vari argomenti la tesi delle difese secondo cui il fuoco sarebbe arrivato dalle postazioni filorusse. Ammettendo pure che dalle fila dei ribelli siano partite raffiche di artiglieria leggera, ciò sarebbe avvenuto in risposta a quelle provenienti dal Karachun e, comunque, in un momento in cui Rocchelli e i colleghi erano ancora vivi e sani. A colpirli furono proiettili di mortaio: arma che i filorussi non avrebbero potuto usare contro di loro perché, vista la poca distanza a cui si trovavano, si sarebbero sparati addosso. La Corte, inoltre, ha rigettato le richieste di introdurre nuove prove. Inutile un sopralluogo, perché nel frattempo molte cose sul posto sono cambiate; inutile l’acquisizione di un film sulla vicenda girato da alcuni giornalisti e realizzato al di fuori delle garanzie processuali. Tardiva la pretesa di far testimoniare altri militari ucraini, che ben potevano essere convocati nel primo grado.
Nella sentenza, infine, si sottolinea il ruolo fondamentale di Roguelon, il superstite che ha contribuito a fare luce su quanto successo il 24 maggio 2014. La sua credibilità è stata messa in dubbio dalle difese, che lo hanno accusato di aver infarcito la sua testimonianza di mere opinioni personali e di essersi contraddetto; per la Corte, invece, «egli ha sempre mantenuto ferma la sua versione senza tentennamenti» ed «è apparso pienamente attendibile sia nelle dichiarazioni sia nelle descrizioni figurative con riguardo ai luoghi e alla localizzazione delle persone». Parimenti, «non vi è motivo per non ritenere del tutto attendibili» le deposizioni dei giornalisti italiani presenti a Sloviansk durante gli scontri. Screditati dagli avvocati di Markiv, per i giudici hanno fornito riscontri efficaci, «convergendo su alcune precise circostanze che non possono non ritenersi provate».
Ora si attende che la Procura generale di Milano impugni la sentenza davanti alla Corte di Cassazione. Probabilmente il ricorso cercherà di spiegare le ragioni per cui le dichiarazioni giudicate inutilizzabili in appello debbano considerarsi assunte in modo valido. Del resto, sono stati i membri della Guardia nazionale sentiti in fase d’indagini, e poi nel dibattimento, a proporsi come testimoni. Mentre tutti, compresi quelli chiamati dalle difese, hanno sempre negato ogni responsabilità propria, di Markiv e dello Stato ucraino. Intanto, la famiglia Rocchelli esprime soddisfazione per queste motivazioni che non sconfessano il lavoro della Procura di Pavia e non azzerano la decisione di primo grado: «La nostra ricerca di verità ha centrato il suo bersaglio, essendo state accertate per due volte la dinamica dei fatti e la provenienza di quell’attacco mortale contro persone inermi».
Il nostro Paese dovrebbe scendere in campo con incrollabile volontà politica nella battaglia contro le violazioni dei diritti umani e contro l’impunità dei crimini commessi ai danni di civili e giornalisti. Tanto più dopo queste 72 pagine; tanto più dopo giorni in cui dall’Italia si è guardato all’Egitto, ricordando il quinto anniversario della scomparsa di Giulio Regeni e registrando l’ennesima proroga dell’ingiusta detenzione di Patrick Zaki, studente e cittadino onorario di Bologna.