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20 Febbraio 2023

La bambina che ha cambiato la storia

Lei era una bambina destinata a morire di leucemia, lui un giovane medico ostinato a non arrendersi. Storia della vittoria più bella “della carriera e della vita” e di un’amicizia che dura da più di cinquant’anni
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Quando si incontrarono la prima volta lei era una bambina di 11 anni, molto sveglia e vitale, a cui avevano appena fatto una diagnosi senza speranza – “leucemia linfoblastica acuta” –, lui era un pediatra di 32 anni che da quattro si occupava di malattie del sangue, aveva fatto carriera in fretta perché nessuno voleva combattere battaglie perse in partenza e stilare diagnosi che corrispondevano a referti di morte. Lei aveva sentito Suor Bartolomea, l’infermiera della clinica pediatrica De Marchi, sussurrare una frase definitiva “Questa povera bambina ha pochi mesi di vita”. Allora, appena si fece buio e tutti cominciarono a dormire, si alzò, prese la cartella clinica (che allora stava in un contenitore al fondo del letto) e, senza capire nulla, imparò a memoria la diagnosi. La mattina dopo, quando vide passare in corsia quel giovane medico con la barba, lo chiamò e gli fece segno con la mano di avvicinarsi. Poi chiese soltanto: “Spiegami cosa vuol dire leucemia”. Lui rimase in silenzio, non sapeva cosa dire, le raccontò che era una malattia del sangue, le parlò dei globuli bianchi, e poi, senza fare promesse che temeva di non poter rispettare, le disse che avrebbe provato a curarla in un modo nuovo e che ogni giorno le avrebbe spiegato cosa stavano facendo.

Lorena Agliardi e Giuseppe Masera

Cinquantatré anni dopo Lorena Agliardi e Giuseppe Masera sono seduti nella cucina di lei e sorridono ricordando i momenti più belli della loro vita. Mentre eravamo in macchina per andare da Lorena, che abita nella bergamasca, il dottor Masera era emozionato, perché quella donna incarna il momento più felice della sua vita di medico: «La curammo per sei anni, dal 1969 al ‘75, e Lorena è la prima ad essere guarita in Italia da una leucemia infantile. Quel giorno tutto è cambiato per sempre e abbiamo scritto una delle pagine più belle della storia della medicina e della mia vita. Oggi guardo indietro e vedo un percorso straordinario: siamo passati da zero possibilità di guarigione all’ottantacinque per cento».Nessuno però, allora, voleva usare la parola guarigione, si preferiva parlare di remissione: «Non avevamo precedenti, così la cautela era grande e anche l’incertezza, io allora mi diedi una serie di tappe che dovevano sancire che ce l’avevamo fatta, cose che non avrei mai potuto immaginare: Lorena che si diploma, Lorena che trova un lavoro, Lorena che si sposa, Lorena che diventa mamma, Lorena che diventa nonna». Siamo qui, seduti intorno a un tavolo, a festeggiare Lorena che è andata in pensione e ad ascoltare il racconto di una vita che avrebbe dovuto interrompersi.

Un cartoncino che ritrae Lorena alle elementari prima che le venisse diagnosticata la leucemia

«Sono nata settimina, pesavo meno di due chili e non crescevo mai, la mamma ricorda che quella notte c’era una nebbia che non si riusciva a trovare l’ospedale.

Ci trasferimmo a vivere a Milano perché mio papà era un operaio metalmeccanico e mia mamma faceva la portinaia vicino a Via Gluck, quella cantata da Adriano Celentano. Allora il Naviglio della Martesana era ancora scoperto in molti punti poco lontano dalla stazione centrale e la domenica si andava a mangiare alla “Cassina de Pomm” il risotto con le rane, il bollito misto e la cassoeula. Fino alla quinta elementare stavo benissimo, poi cominciai ad avere una febbricola che non passava mai. Mi fecero gli esami del sangue e ricordo che uscì un sangue arancione, molto pallido e anemico. Mi portarono subito in ospedale».

Le cose cominciarono malissimo, con una delle prime trasfusioni prese l’epatite C e seguirono mesi di esami e sofferenza. «Allora si pensava ancora che essendo una malattia del sangue – racconta Masera  – fosse impossibile eliminare tutte le cellule cancerogene in circolo e i farmaci, essendo molto tossici, venivano usati uno per volta. Dopo i primi miglioramenti c’erano sempre ricadute, spesso nel sistema nervoso. Insomma, si trattava di una terapia palliativa. Con Lorena e altri bambini decidemmo di sperimentare un approccio molto aggressivo che arrivava dagli Stati Uniti e prevedeva l’uso contemporaneo di tutti i farmaci e un irradiamento del sistema nervoso. Sembrava una cosa troppo violenta per essere sopportata e invece funzionò».

Lorena Agliardi alla fine delle terapie

Lorena ascolta il suo dottore e ride: «Mi ha regalato una vita e io, poi, l’ho sfruttata fino in fondo, ho vissuto con intensità. Non ho rinunciato a nulla, ho persino fumato per decenni». Giuseppe Masera, scuote la testa, ma lei non lascia che la interrompa: «Quando pensi di avere poca vita, allora la sfrutti, altrimenti ti abbatti. Quando pensi di avere un punto di domanda e una data di scadenza sopra la testa, non stai a pensare a ogni cosa. Vivi e basta».


Quando non aveva ancora diciassette anni, prima degli ultimi controlli, andò a una festa dove litigò con un ragazzo di nome Gilberto. Non si capivano proprio, lui la trovava troppo irruenta, ma cominciarono a vedersi e quando lei arrivò all’ultimo esame, quello del midollo con l’ago aspirato, gli chiese di accompagnarla. In ospedale dissero di no, lui doveva stare fuori, lei andò da Masera e disse che senza Gilberto non avrebbe fatto l’ultimo passo. Lui la accontentò. Cinque anni dopo si sarebbero sposati e il dottor Masera sarebbe stato il loro testimone di nozze.

Lorena al suo matrimonio regala un fiore al dottor Masera

L’immagine successiva è del 1982: fuori dalla sala parto un uomo con la barba, in giacca e cravatta, cammina ansiosamente avanti e indietro. Pensano tutti che sia un padre che aspetta notizie del primo figlio, invece è il dottor Masera che aspetta la notizia della nascita di Ivano, il bambino di Lorena.

Negli stessi anni quel medico illuminato vuole aprire un centro più grande, adesso sa che si possono guarire le bambine e i bambini, si trasferisce a Monza, dove all’ospedale San Gerardo dà vita a un centro di avanguardia di ematologia pediatrica. La sua filosofia è quella di un’alleanza tra medici, pazienti e famiglie: i risultati sono straordinari. Lorena trova lavoro, prima fa l’insegnante, poi si impiega in un’azienda di strumentazioni cliniche, quando ha 26 anni nasce Elisa. Quando la bambina compie due anni, Masera (lei continua a chiamarlo così, per cognome) decide che i controlli possono smettere, sono passati tredici anni dalla scomparsa della malattia, è tempo di scrivere che ce l’ha fatta!

Lorena insieme ai suoi figli, Elisa e Ivano

Il 12 gennaio 2018 nasce Matilde, la nipotina. Quando Lorena chiama Masera, annunciandogli che è diventata nonna a 59 anni, lui non riesce a dire nulla per la commozione. Adesso siamo qui a parlare della sua vita da pensionata: «Ho tante passioni, non mi annoio mai, mi incuriosisco di ogni cosa, dal motociclismo alle birre artigianali. Mi piace molto cucinare i piatti della tradizione sulla stufa, fare il lavoro a maglia e all’uncinetto usando il cotone che mi aveva lasciato mia mamma e poi ho un marito che mi sopporta e mi supporta».

Masera la guarda con grande complicità, si capisce che è felice, che in quella bambina che gli fece la domanda più difficile della sua vita e che ora è una nonna vede un disegno perfetto. Sussurra soltanto: «Lorena ha una marcia in più». Lei scuote la testa: «Masera, la marcia in più è una fregatura. Io non sopporto le banalità, lo spreco del tempo e delle energie. Da bambina ho imparato che la vita è fatica e lavoro, quella è la strada per provare a essere felici».

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