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30 Marzo 2020

Invisibile come un orso nella neve

Marco Casula è il ricercatore che tiene aperta la base del Cnr nelle Isole Svalbard. Sarebbe dovuto rientrare in Italia, ma è rimasto bloccato tra i ghiacci dell’Artico. Nell’unico posto dove il virus non è arrivato, dove l’isolamento è una scelta e il pericolo non è la malattia
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C’è un luogo sulla Terra dove il coronavirus non è arrivato, dove i pochissimi abitanti possono ancora stringersi la mano, mangiare insieme la renna il sabato sera e bersi una birra. Il vero pericolo, semmai, è l’orso bianco, l’ultimo che si è presentato, due settimane fa, era alto tre metri e a occhio pesava 700 chili. È un posto dove i guanti obbligatori sono quelli imbottiti contro il freddo e dove la mascherina non serve, ma è indispensabile il passamontagna. Questo villaggio di casette si chiama Ny-Alesund, è il luogo abitato più a Nord, si trova quasi al 79esimo parallelo, nelle Isole Svalbard. D’estate ci vivono duecento persone, quest’inverno ne sono rimaste trenta. Tra loro, un italiano: Marco Casula, 28 anni, veneto di Padova, perito chimico. Tiene aperta la Stazione artica Dirigibile Italia del Cnr. Uno che l’isolamento e la solitudine le ha scelte e non le ha subite per decreto, l’unico italiano che non rischia di contagiarsi.

Marco Casula, con il suo equipaggiamento, tra i ghiacci

In questa bolla senza virus, unica eccezione del pianeta insieme all’Antartide, ora non si può più arrivare e chi provasse a farlo dovrebbe sottoporsi a quattro settimane di quarantena preventiva, due da fare a Oslo e due nell’ultimo e più remoto aeroporto delle Svalbard, a Longyearbyen. Due sono i motivi: il primo è la volontà di preservare uno spazio immune, il secondo è che non ci sono ospedali e nessuno sarebbe in grado di gestire un’emergenza sanitaria.

Ny-Alesund, infatti, è solo un avamposto dedicato alla ricerca, un centro di monitoraggio fondamentale per studiare e comprendere i cambiamenti climatici. Ci lavorano norvegesi, francesi, tedeschi, italiani e giapponesi. E pensare che una società statale norvegese si spinse fin qui, all’inizio della prima guerra mondiale, per aprire una miniera di carbone. I minatori lavorarono in questo clima proibitivo (le temperature reali oscillano tra i 20 e i 30 gradi sotto zero in questo momento) fino all’inizio degli anni Sessanta, quando 21 di loro morirono in un incidente. La società che gestiva tutto, la Kings Bay, si riconvertì e trasformò le casette degli operai in alloggi per scienziati e ricercatori e oggi qui si lavora per l’ambiente.

Le casette della Stazione artica Dirigibile Italia, fotografate da Marco Casula

Questo luogo è fortemente legato alla nostra storia, perché qui fece base Umberto Nobile quando, nel 1928, raggiunse il Polo Nord con il dirigibile “Italia”. Il volo di ritorno finì in dramma per i venti contrari, il dirigibile si schiantò sui ghiacci: sei uomini dell’equipaggio morirono, dieci superstiti, tra cui Nobile, rimasero in attesa di soccorsi per quasi sette settimane. Dalle finestre della base artica del Cnr, che prende il nome proprio da quella spedizione, si vede ancora il pilone a cui era attraccato il dirigibile prima della partenza.

Marco Casula è arrivato qui il primo gennaio, in piena notte polare (il sole era tramontato il 24 ottobre ed è risorto il 18 febbraio, quando l’epidemia stava per esplodere anche in Italia), e ha visto splendide aurore boreali. Ora il sole non scompare più, sta sull’orizzonte tutta la notte, come un tramonto infinito. Marco doveva tornare in Italia il 20 marzo, ma non potendo essere sostituito resterà ancora a lungo; di certo sarà qui a metà aprile, quando il sole sarà alto tutto il giorno e tutta la notte. Ci parliamo al telefono via WhatsApp, si sente benissimo, sembra dietro l’angolo. Quando gli chiedo cosa ci faccia lì, l’italiano più a Nord del mondo risponde, scherzando, che si sente un po’ Checco Zalone. Mi racconta che proprio nella Stazione italiana è stata girata la parte tra i ghiacci del film “Quo vado?”.

In questo periodo, alle Svalbard, il sole resta sull’orizzonte tutta la notte (foto di Marco Casula)

Marco è un tecnico responsabile di campionamenti ed esami di laboratorio: «Il mio lavoro serve a non interrompere una serie climatica di dati che l’Italia sta raccogliendo da dieci anni. Ogni giorno faccio campionamenti di neve, misuro il manto nevoso, il ghiaccio marino, faccio manutenzione delle strumentazioni, raccogliendo dati su questo ambiente delicato e cruciale nel segnalare i cambiamenti climatici». Lui lavora per l’Istituto di Scienze polari, che fa parte del Cnr e ha la sua sede principale all’interno dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, ma sono molti i progetti del nostro Consiglio nazionale per le ricerche che utilizzano i numeri che arrivano dalle Svalbard. Inoltre, grazie a una serie di accordi internazionali, l’Italia fa rilevazioni quotidiane anche per finlandesi, giapponesi e coreani.

L’aurora boreale sul Fiordo del Re (foto di Marco Casula)

«Quest’inverno, per la prima volta dopo dieci anni, il Fiordo del Re (il nome viene dalle tre montagne che lo incorniciano e che si chiamano tre corone) si è completamente ghiacciato; abbiamo avuto un inverno molto rigido e con un freddo costante. Poi, però, il clima ha fatto uno dei suoi scherzi e la settimana scorsa, in poche ore, la temperatura è passata da -30 a +2 gradi e ha cominciato a piovere. La pioggia a queste latitudini è qualcosa di inaudito. Gli effetti del cambiamento climatico si vedono a occhio: poco lontano dalla nostra base ci sono una grotta e delle cascate di ghiaccio, rispetto allo scorso anno sono indietreggiate di diverse decine di metri».

Le montagne “tre corone”, alle cui spalle si apre il Fiordo del Re, fotografate da Marco Casula

Il mare ghiacciato significa anche un maggior movimento di orsi polari, i veri padroni di casa. Quest’anno se ne sono visti molti e sono la prima preoccupazione per chi debba andare a fare le rilevazioni. «L’ultimo, un gigantesco maschio, è comparso all’improvviso a due giovani ricercatrici tedesche; se lo sono trovate davanti a non più di 50 metri di distanza. Il suo pelo bianco, che non riflette il sole, lo mimetizza alla perfezione nella neve. Per fortuna, le colleghe sono riuscite a spaventarlo con la pistola lanciarazzi e lui si è allontanato. Fuori dal perimetro del paese dobbiamo girare armati e seguire delle procedure di sicurezza. Ognuno di noi deve sempre essere collegato sia con la radio sia con il telefono satellitare, poi dobbiamo avere una pistola lanciarazzi per le segnalazioni luminose, un’altra che produce un bang sonoro per allontanare l’orso e un fucile. Quando ci hanno avvertiti che l’animale si era addormentato sul ghiaccio del fiordo, ho preso la motoslitta e sono andato a vederlo. Non avevo mai visto nulla di più grande e affascinante, mi ha fatto sentire veramente piccolo. Si è svegliato e ha cominciato a giocare, una meraviglia della natura».

Un orso polare fotografato da Marco Casula

Gli orsi sono i predatori dell’Artico, non hanno punti deboli, sono silenziosi, capaci di grandi spostamenti, ottimi nuotatori, mangiano quello che trovano – foche, piccoli di tricheco, uova di uccelli in estate – e non farebbero differenza con gli uomini. «Per questo – racconta Marco – la procedura che viene insegnata a chiunque arrivi qui è chiara: se vedi un orso, devi allontanarti; se ti segue, devi spaventarlo con il bang e i razzi traccianti; se ha fame e ti carica, allora sei autorizzato a sparare. Quest’anno è successo una sola volta, il primo gennaio, a Longyearbyen, la cittadina più popolata delle Svalbard. Un orso provava da giorni a entrare in città, lo avevano spaventato in ogni modo, poi quella sera ha puntato dritto verso il bar, che era pieno di persone, e quando era a poche decine di metri gli hanno sparato».

Quando Marco ha deciso di partire, ha dovuto fare i conti con una prospettiva di isolamento che rendeva questa esperienza unica: «Ho scelto questo posto isolato dal mondo in modo consapevole, ma oggi mi trovo in una situazione fortunata rispetto a chi è in Italia. Penso ai miei genitori che non si muovono più da casa; io sono libero di uscire e ho contatti costanti con le poche altre persone che sono qui». In questo villaggio di casette – ognuna è la base di una diversa nazione – esiste una zona comune, la mensa, dove arrivano tutti e trenta i residenti, che sono ricercatori, tecnici, falegnami, elettricisti, a cui si aggiungono i due cuochi. Mangiano insieme tre volte al giorno. Le sole certezze sono le patate, presenti a pranzo e a cena, lo stoccafisso il giovedì sera e lo spezzatino di renna il sabato, il resto dipende dalla nave dei rifornimenti: quando arriva, ci sono anche frutta e verdura fresche. La cena è a un orario impossibile per un italiano, alle 16:30, così Marco si è portato una scorta di pasta e tonno in scatola e la sera si cucina da solo oppure organizza dei “pasta party” che hanno molto successo.

Marco Casula

Fino al 6 marzo, con lui c’era Matteo Pallottini, collega dell’Università di Perugia: insieme hanno gestito le rilevazioni invernali. Per la gioia di Marco e degli altri ricercatori, Matteo si era portato dietro un bel pezzo di guanciale, che ha permesso di fare dei memorabili piatti di carbonara; poi è tornato in Italia prima che chiudesse tutto. Anche nella lunga notte artica, Marco spiega che la solitudine si cura con Netflix e le serie tv: «Adesso, però, passo molto tempo a informarmi su cosa sta succedendo nel mondo, sia guardando i siti sia scambiando informazioni con i centri di ricerca. Ci troviamo di fronte a qualcosa di inaspettato che sconvolge le nostre vite e mi tiene quassù».

Eppure Marco non è stanco di neve, ghiaccio e isolamento; punta a un progetto ancora più estremo: lavorare al Polo opposto, in Antartide, per l’Istituto di Scienze polari. «Si chiama winter over, un anno intero tra i ghiacci del Polo Sud, il sogno della mia vita».

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