Ogni stagione ha il suo cantore, lo scrittore capace di immortalare un’epoca, il musicista che la ferma nella nostra memoria con un brano o il fotografo che ne testimonia lo spirito. Oggi non sappiamo chi tramanderà il tempo che stiamo vivendo, chi ne avrà colto l’essenza in modo così definitivo da rappresentarlo per intero. Quel prodotto, reportage, film, romanzo esiste già o sta nascendo ma ci vorrà molto tempo perché sia elevato a simbolo. Magari anche trent’anni, come è capitato all’America ferita e dolente del 1968 che ha riconosciuto solo nel 1998 la sua natura nelle foto di Paul Fusco.
La morte di Paul Fusco, mancato la settimana scorsa quando stava per compiere 90 anni, ha riportato all’attenzione il suo grande capolavoro, quell’affresco di duemila scatti che compone il “Funeral Train”. Un grande reportage realizzato fotografando la folla che salutava il treno che, nel pomeriggio dell’8 giugno 1968, trasportò da New York a Washington la salma di Robert Kennedy. Ho incontrato Fusco, fotografo dell’agenzia Magnum, dieci anni fa a New York, volevo farmi raccontare la storia di quel suo lavoro, così iconico ma anche così oscuro e dimenticato per decenni. Avrebbe dovuto essere un incontro breve, invece durò più di tre ore. Il suo amore per il lavoro e la poesia con cui era stato capace di raccontare l’estate in cui all’America era stato strappato un sogno, con gli omicidi di Martin Luther King e di Bob Kennedy, ci fecero perdere il senso del tempo. Complici la lentezza con cui amava raccontare le cose e la passione per i dettagli, anche i più piccoli. Quella lunghissima intervista diventò poi un capitolo del libro “A occhi aperti” (Contrasto, 2013) ma oggi la storia di un popolo smarrito mi sembra più attuale che mai.
Chi sarà capace di raccontarci gli Stati Uniti devastati dalla pandemia, da una presidenza che divide e da fratture sociali profondissime? Forse qualcuno che come Paul seppe cogliere un’occasione imprevista.
Quel giorno era di riposo, era un sabato, ma viveva a Manhattan poco lontano dalla redazione della rivista bisettimanale “Look Magazine” per cui lavorava e decise di fare un salto in ufficio. Poco lontano, nella cattedrale di St. Patrick, stava per cominciare il funerale di Bob Kennedy, ucciso due giorni prima a Los Angeles: «I colleghi – cominciò a raccontarmi Fusco con voce bassa – erano tutti in silenzio, si respirava un’angoscia fortissima. Mi siedo. Bill Arthur, il direttore, mi vede e mi chiama nella sua stanza: “Paul, vai in chiesa e poi a Penn Station, porteranno la bara di Kennedy a Washington. Sali su quel treno”. Non aggiunse una parola, non disse cosa voleva, che tipo di foto, se aveva delle idee, nulla. Io non chiesi nulla, allora funzionava così, presi le pellicole, attraversai la strada e mi fermai per mezz’ora fuori dalla cattedrale. Poi camminai veloce fino alla stazione. Trovai subito il treno, era circondato dagli uomini del Secret service. Era un convoglio speciale: non ho mai capito se fosse stato organizzato dal governo o dalla famiglia. Mostrai il tesserino e salii, un agente mi mostrò un sedile dell’ottavo vagone e mi disse: “Siediti qui e non ti muovere”».
Il treno partì lentissimo, per coprire i 328 chilometri che lo dovevano portare a Union Station a Washington impiegò otto ore. Paul aveva con sé tre macchine fotografiche e 30 pellicole Kodachrome. «Non sapevo cosa fare, pensavo che a Washington e poi al cimitero di Arlington avremmo trovato decine di colleghi e di telecamere ad aspettarci, avevo bisogno di un’idea subito. Ero pieno d’ansia ma mi bastò guardare fuori dal finestrino per capire: vidi la folla e tutto fu chiaro. Abbassai il finestrino, allora si poteva fare, e cominciai a scattare. Rimasi nella stessa posizione per otto ore a fotografare la gente accanto ai binari. Quella era la storia».
Un milione di persone aspettavano lungo i binari. Il treno si muoveva lentissimo, si fermava spesso per dare la precedenza agli altri convogli, ci misero quasi il triplo del tempo che si impiega normalmente. Ma era la velocità giusta per quel funerale di popolo: «Venni investito da un’onda emotiva immensa, c’era tutta l’America che era venuta a piangere Bobby, a rendergli omaggio. La mia immagine preferita è quella in cui si vedono un padre e un figlio su un ponticello di legno che salutano portandosi la mano alla fronte, dietro di loro la madre ha la mano al petto. Il giovane è a torso nudo, hanno i capelli arruffati. Quella è la foto simbolo dell’America dopo l’omicidio di Bobby: quella famiglia era povera, combatteva per sopravvivere e vedeva scivolare via la possibilità di una vita diversa. I Kennedy avevano dato speranza alla gente e ora quella gente vedeva tramontare il sogno. Se ne andava con quel treno, era chiuso in quella bara».
Fusco non smise un solo secondo di fotografare, quello che vedeva era struggente ed emozionante: giovani, vecchi, bianchi, neri, preti, suore, famiglie intere con i bambini in braccio, chi è in costume da bagno, chi in lutto e chi con l’abito della festa, chi ha portato uno striscione, chi si toglie il cappello e tantissime bandiere a stelle e strisce. Quando la luce cominciò a calare, le fotografie diventarono mosse e sgranate e i volti sempre meno riconoscibili. Fusco era molto preoccupato ma oggi quell’effetto sembra quasi voluto: è la dissolvenza di una storia, di una vita, del sogno americano.
“Look Magazine” non pubblicò nessuna di quelle foto. Il direttore disse che erano belle ma il concorrente “Life” uscì prima con le immagini della morte e dei funerali e il reportage di Fusco finì in archivio ma tre anni dopo la rivista fallì. «Io mi portai a casa un centinaio di stampe e non mi sono mai dato pace che non fossero state pubblicate. Ho dovuto aspettare trent’anni per vederle stampate. Le proposi al primo anniversario, al secondo, poi dopo dieci anni, 20, 25. Nessuno le voleva, tutti mi dicevano di no. Nel trentesimo anniversario, era ormai il 1998, raccontai la storia a una giovane ragazza che era appena stata presa come photo editor a Magnum, Natasha Lunn. Le dissi sconsolato: “Sono trent’anni che vado in giro con questo lavoro, ma cosa devo fare per vederlo pubblicato?”. Lei a sorpresa mi rispose: “Io lo so, fammi provare”. Telefonò ad una sua amica che lavorava a “George Magazine”, il mensile fondato da John John Kennedy, figlio di JFK e nipote di Robert. Impiegò solo due minuti a convincerli e finalmente io vidi le mie foto stampate».
Da quel momento esplose nel mondo l’interesse intorno al “Funeral Train”, ma c’era un problema: le foto erano andate perdute, esistevano soltanto quelle che Fusco si era portato a casa. Solo nel 2006 il gallerista James Danziger scoprì dove erano finite le altre 1.800: alla Libreria del Congresso di Washington, insieme a tutto l’archivio di “Look Magazine”. Erano inedite, nessuno le aveva mai viste, diventarono una mostra e un nuovo libro pubblicato nel 2008. Allora vivevo a New York e Paul mi invitò all’inaugurazione. Tra quegli scatti ce n’era uno che mi sembrò perfetto e bellissimo, mostrava una famiglia di sette persone disposta in ordine d’altezza e di età, a sinistra la più piccola dei cinque figli, a destra la madre, poi il padre. I bambini hanno solo i costumini, sono tutti sull’attenti con la testa bassa. È la foto che meglio restituisce la malinconia dell’addio. Prima di lasciare l’America e tornare in Italia sono andato alla galleria e l’ho comprata, volevo portarla con me quell’immagine di dignità, quella memoria del sogno spezzato.