Di quel pomeriggio di fine inverno ricordo la luce, quella che ti segnala che sta arrivando la primavera, che le giornate si allungano. Sono appena uscito da un’aula della facoltà di medicina dove si è discusso dell’importanza del tempo, di come sia necessario rallentare per capire meglio le cose. Ho la testa piena di pensieri: medici e ricercatori hanno dato sostanza al malessere che percepisco da tempo, da quando tutto è accelerato, da quando decidere è diventato più importante di capire. Io ho raccontato quello che so: come ho visto tutto questo accadere dentro l’informazione, con la dittatura dell’istante e del tempo reale
Mentre esco in cortile sorrido, vedendo la luce e pensando a quanto siano potenti ma fuori moda i concetti che ho ascoltato. Per tutta la giornata medici, neuro- scienziati, filosofi e storici non hanno soltanto riabilitato il sonno, la noia e il tempo vuoto, ma hanno spiegato che solo rallentando possiamo capire le cose, viverle, farle nostre.
Mi si avvicina una ragazza, mi fa un segno con la mano per richiamare la mia attenzione e poi dice che vorrebbe chiedermi una cosa. Studia medicina e sta per laurearsi. Ha la faccia preoccupata, anche lei ha ascoltato quei discorsi, ma non sembrano averla rasserenata, anzi.
Parla a voce molto bassa e mette in fila il racconto della sua vita in modo schematico: «Sono in pari con gli esami, ho seguito tutta la pratica richiesta, ho migliorato il mio inglese, leggo tutti i libri che mi consigliano e non faccio mai nulla che non sia utile. Mi resta solo il tempo per dormire, che è sempre troppo poco. Ma tutto questo non basta. Non basta mai. Le mie compagne più brave fanno anche volontariato e sento dire che questo farà la differenza nel curriculum; fanno sport di gruppo e anche questo conta per tutti i discorsi sullo spirito di squadra. Ci consigliano di fare un’esperienza all’estero, magari in un ospedale africano, prima di finire la specializzazione. Altri suggeriscono con un sorriso: “Certo, sarebbe utile parlare un’altra lingua straniera oltre all’inglese”. Ma come si fa? Come si può fare tutto e tenere insieme tutto? Io mi sento inadeguata e vedo che l’asticella è sempre più in alto. Troppo in alto».
Comincia a piangere silenziosamente. Volta le spalle alla porta da cui stanno uscendo molti suoi compagni di università, non ha voglia di farsi vedere. Cerco un fazzolettino di carta, i suoi occhiali si sono appannati ma vedo le lacrime scendere sulle guance. La sua ansia la riconosco perché l’ho vista spesso: è figlia della paura di non essere all’altezza delle aspettative e di non riuscire a seguire la strada «giusta». Si è diffusa la convinzione che esista un percorso esatto per le nostre vite, come se ci fosse un algoritmo che prevede tutto quello che si deve fare. Non è più permesso commettere errori o prendere strade diverse se si vuole restare nella partita. Di questo mi sembrano parlare le sue lacrime.
Vorrei dirle che la persona a cui sta chiedendo consiglio non si è mai laureata, che ha davanti agli occhi un esempio di imperfezione. Ma non voglio che il discorso si sposti su di me e ho anche un po’ di pudore a confidarle le mie mancanze. Allora cerco di rassicurarla, le dico una cosa che mi ripeto spesso: la vita è una maratona, non sono i cento metri, non la puoi misurare ogni giorno. La cosa più importante è riuscire ad avere idea della direzione. Le spiego che ogni volta che incontro qualcuno che ha vissuto tanto mi faccio raccontare il suo percorso e scopro che non è mai lineare, ma pieno di inciampi, curve e sorprese: «Vai a parlare con i tuoi nonni e vedrai che le loro vite assomigliano a una camminata in montagna, che si è dovuta adattare al terreno, o alla rotta di una barca a vela, che procede a zig-zag se il vento soffia contro. Non scoraggiarti se tutto non è dritto e non è preciso come ti dicono».
Non riesco ad aggiungere altro e avverto che il suo malessere mi parla di qualcosa di più grande: quest’ansia è la cifra del nostro tempo. Lo sento nei discorsi delle mie figlie, lo vedo nelle chat delle loro classi che continuano senza interruzione anche di notte, me lo raccontano gli incontri che faccio ogni giorno e tutto quello che leggo.
Ha smesso di piangere, restiamo un po’ in silenzio e lei mi guarda, ho la sensazione però che quelle domande siano ancora lì sospese: devo andare a fare un’esperienza all’estero? Devo studiare un’altra lingua? Devo fare volontariato?
Mi sento in dovere di rassicurarla su una cosa: «Non si può fare tutto e non sentirti in colpa se non ce la fai. È più importante imparare a scegliere e avere coraggio di rinunciare a qualcosa, senza troppi rimpianti». Sono grato a Marcello, il medico che mi ha invitato a parlare, ma soprattutto sono grato a questa ragazza, perché nessuno mi aveva mai fatto vedere così chiaramente il problema.
Le sue domande hanno acceso qualcosa nel mio cervello. Dopo quell’incontro è partita la fissazione, che è sempre il motore dei miei libri. Un tema mi ronza in testa e allora vado in giro cercando segni che possano indicare la direzione, persone da ascoltare, che con le loro vite possano dare qualche risposta a quella giovane donna di cui non conosco il nome. E a tutti noi.