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21 Luglio 2022

Il mio amico Gianni

Un vento freddo e la miseria umana hanno segnato la vita di Gianni che da quasi 60 anni convive con una disabilità fisica. Questa è la sua storia, la sua grinta e i suoi sogni. Che non ha mai smesso di voler realizzare
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«Quando sono nato ero un bambino sano. Prematuro e mingherlino ma sano. Sono venuto al mondo nell’ospedale di Recco con un mese di anticipo: mi aspettavano per Natale, invece sono arrivato il 15 novembre». Quella notte del 15 novembre 1963 in Liguria si alzò un forte vento di tramontana, gelido; in ospedale faceva un freddo micidiale e i neonati iniziarono a piangere. Continuarono a strillare fino a mattina. Tutti tranne uno: Gianni. Il più piccolo e il più gracile. 
I medici si accorsero che qualcosa, in quel suo silenzio, non andava, solo due giorni dopo. Non riuscirono, però, a capire che cosa e quando finalmente lo trasportarono al più attrezzato ospedale di Genova era troppo tardi. Dopo due mesi di ricovero Gianni tornò a casa con un referto su cui c’era scritto: tetraparesi spastica distonica. Il freddo di quella notte gli aveva procurato una congestione con effetti devastanti e permanenti sul suo sistema nervoso.

Giovanni Battista Casareto (© Giovanni Battista Casareto / Facebook)

Questa è la storia del mio amico Gianni, all’anagrafe Giovanni Battista Casareto, che il prossimo anno compirà sessant’anni, che ha tanti rimpianti, molta grinta, una testa velocissima, un talento per la scrittura, e dei sogni. Ci siamo conosciuti alla presentazione del mio libro “La mattina dopo” e quella sera mi disse che la sua vita è una lunga mattina dopo, quella segnata dal vento ma anche dall’incompetenza degli uomini. Perché a Genova esisteva una culla termica dove ospitare i prematuri, una culla che lo avrebbe protetto e salvato, ma i medici decisero di tenerlo a Recco, dove era nato. Per farlo falsificarono anche il suo peso alla nascita, facendolo figurare di oltre due chili. Il sospetto di quell’imbroglio venne ai medici genovesi, allora il papà di Gianni, una sera, aspettò l’ostetrica fuori dall’Ospedale di Recco e le disse: “O mi dite la verità o farete tutti una brutta fine”. Lei ammise che era stata cambiata la cartella clinica, ma non fu capace di spiegare il perché. Gianni si è fatto l’idea che sia successo per questioni di numeri, statistiche e rimborsi. Per anni si è spaccato la testa pensandoci, si è riempito di rabbia, poi ha capito che non serviva a nulla e ha smesso.
 
Gianni mi scrive regolarmente, mi manda cose da leggere, poesie, testi di canzoni, racconti storici (l’ultimo lunghissimo e notevole su Falcone e Borsellino), ci scambiamo pareri, io gli segnalo podcast da ascoltare e mi viene sempre a salutare quando faccio presentazioni o dibattiti a Recco o a Camogli. 
Questa volta però sono venuto apposta a trovarlo per farmi raccontare la sua storia e i suoi pensieri, ho salito il primo pezzo della strada che dal mare porta verso Uscio, verso la montagna, ho trovato il cancello verde e sono entrato nella casa dove ha passato tutta la sua vita. Fino al 1980 con suo padre, portato via ancora giovane da un cancro, e fino a cinque anni fa con sua madre Velia, che è arrivata a 93 anni. Ora abita insieme a una badante ucraina e a suo marito.   
 
«Nei primi anni di vita, ero totalmente immobile, incapace di muovere anche il minimo arto. Ero tutto rigido con le mani chiuse a pugno, la schiena inarcata in avanti e i piedi che puntavano in dentro. Insomma, un disastro. I medici non davano grandi speranze: anzi, si rallegravano che li seguissi almeno con gli occhi, segno che per fortuna ero stato colpito soltanto nelle parti motorie del mio corpo e non in quella intellettiva. Ricordo una visita che feci a Genova il giorno prima di compiere sei anni, durante la quale fecero a mia madre un discorso strano che si concluse con un consiglio: ricoverare in un istituto quel figlio disabile. Ricordo la faccia della mamma, i suoi gesti, la voce alterata e la lite con il medico. Tante volte mi sono chiesto cosa sarebbe stato della mia vita se i miei genitori avessero accettato i consigli di quel “luminare” e si fossero liberati di questo figlio, magari ricordandosi di me soltanto la domenica o nelle festività importanti. Invece mi hanno cresciuto e testardamente mi hanno curato anche al di fuori delle terapie tradizionali. Assunsero un massaggiatore di Sori, che al prezzo di tanti loro sacrifici economici e a una montagna di mio dolore fisico, in anni di lavoro mi mise letteralmente in piedi. Solo il braccio destro rimase parzialmente bloccato. Per il resto, la schiena divenne dritta, i piedi li appoggiavo normalmente e la mano sinistra era quasi totalmente recuperata. Pensa che con lui arrivai a fare esercizi alla spalliera e a camminare, se tenuto sottobraccio da qualcuno». 
 
Quell’uomo morì all’improvviso in un giorno d’autunno del 1981 mentre aspettava l’autobus che lo avrebbe portato a casa di Gianni. Gianni aveva appena compiuto diciotto anni, suo padre era mancato un anno prima e per lui questo fu un colpo durissimo, la perdita della speranza, della persona che gli aveva regalato una nuova vita. «Se sulla mia strada non avessi incontrato lui, e i suoi tremendi metodi, non sarei nemmeno in grado di scrivere una mail, di mangiare da solo, lavarmi, telefonare, guidare la carrozzina elettrica». 

Gianni da bambino (© Giovanni Battista Casareto)

Gianni è andato in prima elementare a otto anni, al Centro spastici di Genova. Con due anni di ritardo sugli altri bambini solo perché, per un problema burocratico, l’autobus che avrebbe dovuto accompagnarlo non arrivava fino a casa sua: «Ad un certo punto mio papà scoprì che il comune di Genova scriveva regolarmente a quello di Recco, ma non otteneva mai risposta e così il pulmino si fermava ogni mattina due chilometri prima, di fronte alla casa di un altro bambino. Quel giorno perse la testa, prese il motorino – la macchina non l’abbiamo mai avuta – e corse a cercare il sindaco. Mio padre era elettricista e aveva sempre un cacciavite lungo in tasca. Arrivò in Comune, tirò fuori il cacciavite e annunciò: “Sono venuto per bucare la pancia del sindaco”». Lo fermarono, ma dopo due settimane lo scuolabus arrivò sotto casa Casareto alle sette del mattino. Gianni imparò a usare la macchina da scrivere e trovò una maestra che gli lasciava scrivere ogni cosa che gli passasse per la testa: pensieri personali, storie di sport e fatti di cronaca nera. 
 
«Alla fine delle elementari dissero che potevo essere inserito nella scuola media di Recco, usufruendo della riforma Malfatti, che consentiva ai disabili di essere messi a contatto con i ragazzi “normali” all’interno delle singole classi. Era una rivoluzione ed io credo di essere stato tra i primi a farne parte. I miei compagni mi trattarono sempre con gentilezza e rispetto, due di loro erano la mia “stampella” e mi accompagnavano ovunque. È stato un tempo bello anche se difficile, perché lì ho cominciato a vedere la differenza tra me e gli altri ragazzi: loro correvano e io restavo a guardarli, poi li ho visti abbracciati alle fidanzate, e poi sposarsi e avere dei figli. Questa è la parte più dolorosa, la mancanza dell’amore e di una famiglia mia».

Una delle ceramiche realizzate da Gianni (© Giovanni Battista Casareto)

Gianni fatica a parlare e il suo pensiero è più veloce della sua parola, ma non rinuncia a cercare l’aggettivo o la definizione giusta per ogni fatto che racconta, vive tra la televisione e il computer e le pareti e i ripiani della libreria sono pieni di piatti, vasi e sculture che ha imparato a fare alla scuola per ceramisti che ha frequentato per tre anni. «Non avevo nessuna manualità, nemmeno la percezione di come si tiene in mano un pennello per decorare, non riuscivo a connettere mano e cervello sulla stessa lunghezza d’onda. Ma attraverso un lavoro quotidiano piano piano la mano ha cominciato a rispondere agli impulsi della testa e io a costruire vasi, ciotole, piatti e poi a decorarli». Anni dopo quella capacità gli permise di far parte di “un gruppo di pazzi” che aprì un laboratorio di ceramica nel suo garage. «Si chiamavano Giuliano, Lino, Luciana e Daniela. Eravamo molto affiatati e c’era grande armonia tra noi, quel tempo è stata l’esperienza più intensa e felice della mia vita. È finita il giorno in cui si è fermato il cuore di quel vulcano di passioni e di idee che era Giuliano. Era il marzo 2004 e la sua perdita improvvisa mi provocò un dolore indicibile e uno stress fortissimo, come se a morire fosse stato un fratello maggiore. Alcuni giorni dopo mi accorsi che nella parte destra del mio corpo stava succedendo qualcosa: il braccio destro cominciò a chiudersi e il tendine d’Achille ad accorciarsi, poco tempo dopo non mi fu più possibile camminare».
 
Ascolto Gianni e mi rendo conto di quanto siano fondamentali nelle nostre vite gli amici e i maestri, di quanto una comunità possa fare la differenza. Oggi, guardando indietro, Gianni pensa che sua madre abbia sbagliato a proteggerlo dal mondo esterno, a tenerlo sempre a casa con sé: «Viveva con le paure e le difficoltà di vedere un uomo dentro quel ragazzo che cresceva con quel corpo imperfetto. Non mi considerava in grado di vivere una vita mia, indipendente. Di avere amici, rapporti con le ragazze, amori. Non gliene ho mai fatto una colpa, perché nessuno l’ha mai aiutata a comprendere e a superare i propri limiti culturali, ed io non avevo la forza per combattere e ad un certo punto mi adeguai. Passavo giornate sempre uguali davanti alla televisione, ad abboffarmi delle cose che amo di più, la torta di riso e la focaccia al formaggio». 
 
Poi ha trovato la voglia di ricominciare a scrivere e il 10 settembre del 2001, il giorno prima degli attentati alle Torri Gemelle, ha cominciato a lavorare nella segreteria del Comune, per tre anni. Da allora Gianni vive con la pensione di invalidità. La morte della madre lo ha obbligato a prendere in mano la sua vita, ha imparato ad andare a fare la spesa e la sua più grande sensazione di libertà è stata quella di lanciarsi con la carrozzina lungo la discesa verso Recco
«Non sono autosufficiente e mi muovo attraverso due carrozzine, una da interni e una da esterni, che piloto con grande maestria, tanto che mi chiamano “Schumacher”. Nel periodo estivo esco da solo e mi butto come un folle in mezzo al traffico giù dalla discesa e in un quarto d’ora faccio i due chilometri e mezzo di strada provinciale che mi portano fino al mare. È una cosa che mi fa sentire vivo, e autonomo. Diventando grande ho capito che l’autonomia e la voglia di indipendenza la devi avere dentro te stesso e poi conquistarle, lottando per te e per gli altri per abbattere le tante diffidenze, le discriminazioni, le barriere culturali e architettoniche che ancora avvolgono e condizionano la vita dei disabili».

Il mio amico Gianni (© Giovanni Battista Casareto / Facebook)

Parliamo da ormai due ore, mi aveva detto che aveva tre sogni, torno a chiedergli di raccontarmeli. Il suo sogno più grande, la battaglia in cui mette tutto sé stesso è quella contro le barriere architettoniche, per questo è stato tra i promotori del gruppo ABA (Abbattimento Barriere Architettoniche) che coinvolge persone o parenti di disabili che si confrontano con l’amministrazione comunale per la rimozione degli ostacoli quotidiani. 
Nei giorni delle polemiche sui green pass, in cui i no vax di lamentavano di essere discriminati perché non potevano entrare nei negozi, ha scritto: «Cosa c’è di più discriminante di vedere gli altri entrare e di essere costretti a stare fuori. A me capita da una vita. Quante volte ho dovuto gridare come un ossesso per farmi vedere, perché quel negozio era senza scivolo? E ogni volta che accade mi sento ferito e umiliato nel profondo e penso di essere un cittadino di serie C».
Un altro suo sogno è vedere una sua canzone, una di quelle di cui scrive i testi, arrivare a Sanremo, o di salire su quel palco per parlare con Amadeus degli ostacoli che rendono le sue giornate un inferno. «La vita è dura e ci sono giorni in cui vedo tutto nero attorno a me, per fortuna ce ne sono altri in cui penso di essere fortunato perché la mia testa funziona bene e me lo devo ricordare sempre». 
 
Ci stiamo salutando, gli prometto che tornerò, poi mi ricordo che manca il terzo sogno, allora torno indietro: «L’amore, la tenerezza, una compagna e una famiglia». Lo abbraccio, poi lui si mette a ridere, gira la testa da una parte e dall’altra con timidezza e aggiunge: «Ne avrei anche un altro: fare sesso con una pornostar».

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