Novant’anni fa, era la sera del 10 maggio del 1933, un enorme falò illuminò il cielo di Berlino: un fuoco “purificatore” che bruciava la cultura. Venticinque mila libri furono messi al rogo dagli studenti nazisti indottrinati da Joseph Goebbels, ministro della propaganda di Hitler. Tra le fiamme finirono tutti gli scritti di chi veniva accusato di “corrompere” lo spirito tedesco: da Hemingway a Freud, da Bertolt Brecht a Thomas Mann, da Kafka a Joyce fino ad Albert Einstein. A bruciare quella notte, in un rogo che verrà poi ripetuto in molte città della Germania, ci fu anche un testo italiano. Un libro bellissimo, allora molto popolare in Europa e oggi completamente dimenticato.
Si intitolava “Todeskampf der Freiheit” (Agonia della libertà) e lo aveva scritto Pietro Nenni, leader socialista allora in esilio a Parigi dove manteneva la famiglia (aveva quattro figlie femmine) facendo il giornalista. Nenni, dopo la guerra, sarà deputato all’Assemblea Costituente, vicepresidente del Consiglio per cinque anni nei governi di centrosinistra guidati da Aldo Moro negli Anni Sessanta e Senatore a vita fino alla sua morte, a quasi 89 anni, nel 1980. Ma allora era costretto a vivere lontano dall’Italia dove aveva preso il potere il suo amico di gioventù, Benito Mussolini.
Quel libro prezioso e dimenticato l’ho scoperto perché ora, grazie alla Fondazione Nenni, torna in libreria con il titolo “Sei anni di guerra civile in Italia” e con una splendida introduzione di Fabio Martini, giornalista de La Stampa con cui ho condiviso molti anni di lavoro.
«Per quali ragioni – si chiede Martini – quel libro, uno dei pochissimi di autore italiano (l’altro fu un volume di Francesco Saverio Nitti), era finito nei falò nazisti? Gli storici possono indicare diverse tracce, tutte interessanti. E tuttavia, per capirlo, è sufficiente leggerlo quel testo. Un libro icastico, che narra l’avvento violento del fascismo senza aggiungere un etto di retorica: proprio questa natura “oggettiva” (ovviamente mai asettica) aveva trasformato l’opera di Nenni in un potente atto di accusa nei confronti del regime».
È il racconto della presa del potere da parte di Mussolini, attraverso la descrizione delle violenze, delle paure e delle complicità. La descrizione delle azioni fasciste contro contadini e operai, soprattutto nelle campagne dell’Emilia, mi ricorda i linciaggi dei neri da parte del Ku Klux Klan che avvenivano nello stesso periodo in America. Case incendiate, esecuzioni esemplari davanti agli occhi delle mogli e dei figli, spedizioni punitive per “rigenerare” la società e un senso di allarme che deve far nascere il bisogno dell’uomo forte che riporti l’ordine.
Questo lungo racconto non era nato come libro, ma come una serie di articoli (alla fine furono ben quaranta) che vennero pubblicati dal settembre del 1929 sul quotidiano francese Le Soir. Quando il giornale annunciò l’iniziativa, le autorità fasciste cercarono, senza successo, di bloccare la pubblicazione mandando un emissario “con una grossa mazzetta di biglietti da mille”. Ma il 13 settembre apparve il primo articolo e – come racconta Antonio Tedesco – il successo di quei pezzi fu tale che il giornale, che allora vendeva solo 10 mila copie, decuplicò la sua diffusione. Quegli articoli varcarono i confini francesi e vennero pubblicati anche in Germania, Svizzera e Belgio.
L’anno dopo, Nenni raccoglierà ciò che aveva scritto per Le Soir in un libro che diventerà un best seller in Francia e in Germania, dove Hitler non è ancora al potere. Finirà tra le fiamme del rogo nazista tre anni dopo, colpevole di essere stato un grande successo popolare, capace di far comprendere i caratteri della presa del potere del fascismo, che riesce grazie alla violenza ma anche alla complicità e alla pavidità dei Savoia e alla divisione e all’impotenza del fronte antifascista.
Il giornalismo di Nenni è illuminante perché è asciutto, senza troppi aggettivi o iperboli, ma con una grande capacità descrittiva: lascia parlare i fatti anziché commentarli.
«Tra le ragioni che fanno di “Sei anni di guerra civile in Italia” un libro importante – sottolinea Fabio Martini – c’è anche il ritratto che Pietro Nenni dedica a Benito Mussolini. Un ritratto ricco di amarezza ma anche di verità psicologica. Nenni aveva conosciuto molto da vicino il futuro Duce. Erano nati tutti e due nella provincia di Forlì, avevano fatto amicizia da giovani, anche se Benito aveva sette anni e mezzo più di Pietro. Due figli del popolo, due teste calde. A pennellate secche Nenni ripercorre la giovinezza “tumultuosa”, di un ragazzo “di intelligenza precoce, d’un carattere vivace, ma brutale nella sua selvatica timidezza”. Un tratto caratteriale che risulta spiazzante, se si pensa al futuro Duce, così roboante in piazza Venezia.
Negli anni giovanili Mussolini è descritto come “un ribelle” chiuso in “lunghe letture solitarie”, protagonista di una vita “poverissima”, trascorsa a “bighellonare” solo per la campagna forlivese, al punto che “qualcuno lo aveva soprannominato: il matto”. Nella loro Romagna i due avevano trasformato lo sciopero nazionale del 1911 contro la guerra di Libia in una sfida alle forze dell’ordine, tagliando fili del telefono e del telegrafo, lanciando sassate sui ferrovieri. L’agitazione era riuscita, ma i due erano stati arrestati, condannati e chiusi in carcere nella stessa cella».
Il libro si apre proprio con il racconto dell’ultimo dialogo tra i due amici di gioventù ora diventati lontanissimi: è il gennaio del 1922 e Nenni e Mussolini si incontrano per caso sul lungomare di Cannes, dove è in corso un vertice internazionale tra i capi di governo europei. È l’ora del tramonto e i due discuteranno animatamente tutta la notte della situazione politica, della violenza, della strada senza uscita che sta imboccando la democrazia italiana, lasciandosi senza un saluto solo allo spuntare del sole.
«L’alba spunta all’orizzonte – scrive Nenni – e la brezza si porta via l’eco delle ultime parole. L’uomo che se ne va (spalle larghe, volto volitivo) è Benito Mussolini, che sarà otto mesi più tardi il dittatore più onnipotente dell’Italia, più in dipendenza degli errori dei suoi avversari, che per i suoi meriti. L’altro, di otto anni più giovane, è un giornalista dall’animo di agitatore. Da dieci anni butta la sua giovinezza a tutti i quadrivi dove si combatte per la libertà».
Dopo la notte passata su una panchina di Cannes i due non si incontreranno mai più, ma Nenni non rinnegherà mai l’amicizia giovanile, tanto che quando nella redazione del quotidiano socialista l’Avanti! il 28 aprile del 1945 arriverà la notizia della fucilazione di Mussolini, come racconterà Sandro Pertini, «Nenni aveva gli occhi rossi, era molto commosso, ma volle ugualmente dettare il titolo: “Giustizia è fatta”».