14 Dicembre 2024

Il frutto della pace

La mia storia di Natale parla di come un gruppo di donne serbe e bosniache siano riuscite a ricucire le ferite del genocidio di Srebrenica. Di come lavorino insieme trasformando i frutti del bosco e di come una semplice marmellata possa raccontare una riconciliazione autentica.
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Nel 2025 saranno trascorsi 30 anni da quello che il Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia ha ufficialmente definito genocidio. Ma Nermina gli anni post-Srebrenica ha iniziato a contarli solo dieci anni fa, quando finalmente, in una delle tante fosse comuni terziarie, sono stati trovati i resti di suo padre. Solo allora, per lei, quella storia è veramente finita. 

Nermina (con il maglionicino rosa), insieme a Skender e Rada, i due soci fondatori della cooperativa “Insieme” © Francesca Milano

Dopo averlo seppellito Nermina è tornata al suo lavoro, nella cooperativa di Bratunac. Ad aspettarla c’erano le sue colleghe: donne bosniache vedove delle vittime di quel genocidioma anche donne serbe, vedove di chi quel genocidio l’ha commesso. Lavorano fianco a fianco coltivando frutti di bosco e trasformandoli in marmellate e succhi, e raccolto dopo raccolto hanno ricominciato a parlarsi, e a perdonarsi.

Il merito è di chi quella cooperativa l’ha fondata: Rada Zarkovic e il suo amico Skender Hot, che nel 2001 hanno deciso di seminare la pace laddove fino a pochi anni prima c’era stata la guerra. Né Rada né Skender provengono dalla zona di Bratunac: lei è di Mostar (ma vive a Sarajevo), lui è di Tuzla. Ma hanno scelto proprio questo luogo perché, come racconta Rada, «abbiamo sentito il dovere di offrire una nuova chance a chi non aveva più niente e aveva subito il crimine più atroce». Da questa regione le donne erano scappate con i bambini e gli anziani mentre l’esercito serbo uccideva nel giro di pochi giorni, tra il 6 e l’11 luglio del 1995, oltre 8.300 bosniaci musulmani

Skender mi mostra le zone in cui sono state trovate fosse comuni secondarie e terziarie relative al genocidio di Srebrenica © Francesca Milano

Quando, dopo la fine della guerra, le donne hanno iniziato a tornare, non avevano più nulla: molte di quelle che arrivavano, lo facevano per vendere le loro case e i loro terreni, e andarsene di nuovo. Anche Nermina e sua madre erano scappate altrove quando i militari serbi avevano catturato suo padre. Lei c’era, quel giorno. Aveva 15 anni e aveva rischiato di essere uccisa insieme a lui, se non fosse stato per un soldato che aveva convinto il suo collega a lasciarla andare. 

Nel 2001, sei anni dopo quel giorno, Nermina è tornata a Bratunac e ha scoperto l’esistenza della cooperativa “Insieme”, fondata da Rada e Skender. Avrebbe dovuto lavorare con le donne serbe, le mogli e le madri di quegli uomini che le avevano ucciso il padre e che stavano per uccidere anche lei. Nermina poteva far vincere il rancore, e dire “no”. Invece ha detto “sì”, scegliendo di contribuire alla ricostruzione di una comunità multietnica e pacifica. 

Il reparto della cooperativa “Insieme”, dove si producono e si imbottigliano i succhi di frutta © Francesca Milano 

Come moltissime altre donne bosniache, anche Nermina si è sottoposta al test del Dna nella speranza di poter identificare il corpo di suo padre, o quello che ne restava. Per molti anni ha atteso che il suo patrimonio genetico corrispondesse a quello delle ossa che periodicamente vengono ancora oggi rinvenute nelle fosse comuni. Sono oltre mille le persone di cui non si è ancora trovato nulla, e si continua a scavare in quelle che sono state definite fosse secondarie e terziarie. «Si tratta – spiega Rada – di luoghi in cui i serbi, dopo la strage, spostavano i corpi o parti di essi. I resti di una vittima sono stati ritrovati in cinque luoghi diversi, il più lontano a trenta chilometri di distanza».

Oggi della cooperativa “Insieme” fanno parte oltre 500 famiglie e Rada non tiene più il conto di quante siano quelle di origine bosniaca e quante quelle di origine serba. Ci è voluto un po’, ma l’obiettivo è stato raggiunto: trasformare una cooperativa multietnica in una “cooperativa e basta”, come dice Rada. 
L’unico giorno in cui ancora oggi si sente la differenza tra bosniache e serbe è l’11 luglio: «Quel giorno – racconta Rada – qui lavorano solo le donne serbe, perché le donne bosniache vanno al memoriale per commemorare i loro familiari morti nel genocidio. Ma non è stata una nostra imposizione: è successo in maniera naturale, lo hanno deciso le donne serbe, regalando alle colleghe di origine bosniaca un giorno di riposo da dedicare al ricordo di quella strage».

Sedute attorno a un tavolo, le donne bosniache e le donne serbe etichettano a mano ogni vasetto di marmellata. © Francesca Milano

Fondamentali sono state le pause caffè: «Quando erano in fabbrica – racconta ancora Rada – le donne non si parlavano troppo, ognuna era concentrata sul suo lavoro e sulla diffidenza. Ma sono state le pause caffè a offrire la possibilità di conoscersi, parlarsi, capirsi». Nell’area break attrezzata all’interno dello stabilimento della cooperativa le donne serbe e le donne bosniache hanno iniziato a confrontare le loro ricette familiari per realizzare le marmellate di frutti di bosco.

Quelle ricette sono state la base del dialogo tra le donne, ma sono state anche la base della seconda vita della cooperativa: durante i primi anni di attività, il business era legato solo alla vendita dei frutti di bosco congelati. Ma la crisi del 2008 aveva ridotto di molto la richiesta di questi prodotti. Erano sul punto di chiudere, racconta Rada, che ricorda l’angoscia di quei giorni. Ma proprio in quelle settimane, arrivarono in visita a Bratunac due grandi amici della cooperativa, il fotografo Mario Boccia e il logista Bruno Tassan Viol, che da anni conoscevano Rada e Skender. 

La cooperativa conta oltre 500 famiglie socie che coltivano frutti di bosco, uno dei prodotti tipici della zona © Francesca Milano

«Quella volta – ricorda Rada – venne in Bosnia anche un loro amico che io non avevo mai visto. Erano giorni complicati: io e Skender avevamo dato le nostre case come garanzia per i prestiti bancari relativi alla cooperativa, e rischiavamo di dover fare i bagagli. Eravamo molto preoccupati, ma durante quella visita facemmo finta di niente: accompagnammo Bruno, Mario e il loro amico a visitare la fabbrica, e alla fine regalammo loro delle marmellate che le nostre donne producevano artigianalmente».

Pochi giorni dopo quella visita, Rada ricevette una telefonata. Era l’amico di Bruno e Mario. La stava chiamando per dirle che lui lavorava in Coop Italia, che le marmellate della cooperativa erano buonissime, che le aveva fatte analizzare dai laboratori di Coop, e che Rada e Skender erano invitati in Italia per fare un accordo commerciale. Da quel momento, sugli scaffali della Coop Lombardia è possibile trovare le marmellate prodotte a Bratunac da Nermina e dalle sue colleghe. 

Quell’accordo ha salvato la cooperativa e il lavoro di tutte queste donne, compresa Nermina che continua a coltivare frutti di bosco nella terra in cui ha finalmente potuto seppellire suo padre. «È come se questi lamponi – dice – fosse lui a mandarmeli, stagione dopo stagione».
La storia di Nermina, di Rada, di Skender e della cooperativa Insieme è raccontata nel podcast “Cosa vuol dire Insieme“, prodotto da Chora Media.

*Francesca Milano ha iniziato a scrivere sul giornalino del liceo e da allora non ha più smesso. Si è laureata in Scienze della Comunicazione, ha frequentato un master in Investigazione criminale e poi la scuola di giornalismo. Ha lavorato al Corriere dell’Umbria, al Corriere di Arezzo e al Sole24Ore, dove ha trascorso 16 anni tra carta, web, social e podcast. Dal 2021 è responsabile dei podcast di news a Chora Media

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