Siamo davvero condannati a vivere con la sensazione di non avere mai tempo, di essere rincorsi dalle urgenze e di perdere di vista le cose importanti? È una condizione obbligata dei nostri giorni oppure è possibile cambiare strada, sottrarsi agli automatismi quotidiani e ritrovare libertà e autenticità?
La cosa su cui ho ragionato di più in questi ultimi anni, è il nostro rapporto con il tempo.
Siamo immersi in un presente talmente pieno di cose e di stimoli, soprattutto digitali (messaggi, notizie, video, foto, audio, riunioni on line) che la nostra attenzione e i nostri pensieri sono completamente occupati.
Un presente così dilatato e così ingombrante si mangia la possibilità di immaginare il futuro e non lascia la possibilità di avere spazio nelle nostre teste per progettare cose nuove e diverse.
Rendermene conto è stata la molla che mi ha spinto a scrivere “Il tempo del bosco”, a mettermi alla ricerca di risposte.
Di quello che ho trovato, di tutto ciò che sono riuscito a capire ne ho parlato con Alessandro D’Avenia, professore e scrittore con un amore infinito per i classici e per l’Odissea.
La prima volta che abbiamo fatto un incontro insieme, ormai più di dieci anni fa, Alessandro mi disse che per lui era importante trasmettere alle ragazze e ai ragazzi la “nostalgia di futuro”. Ricordo che rimasi interdetto di fronte a questa frase che è un ossimoro: come si fa ad avere nostalgia di qualcosa che non si è ancora vissuto? Ma è una frase meravigliosa perché significa creare una voglia, un desiderio potente di immaginazione.
Questa, ancora oggi, mi sembra una chiave per provare a uscire dalla dittatura dell’attimo presente e proprio da qui è cominciato un dialogo con D’Avenia che fa parte della serie “Officine editoriali” curata da Mondadori e che potete vedere e ascoltare qui.
«Noi – racconta Alessandro – abbiamo rimosso l’idea di destino che ci avevano consegnato i greci per sostituirla con quella di carriera. Oggi è l’idea di carriera che fa il nostro destino, tu devi entrare dentro qualcosa che ti garantirà un futuro felice, identificato con il successo, e questo porta immediatamente nel cuore dei ragazzi l’ansia. Tu sei obbligato a rispettare un copione e lo devi rispettare in fretta. Pensa all’assurdo dell’espressione “tempo reale” che abbiamo inventato e che indica semplicemente che qualcosa ti arriva il più rapidamente possibile e che vuole dirci che il tempo è vero quando è rapido».
È questa la cifra del presente: tutto deve essere veloce, non ci devono essere ritardi o spazi vuoti. Non a caso si ascoltano i messaggi vocali al doppio della velocità. «Ma non credo che ti verrebbe in mente di ascoltare la tua canzone preferita al doppio della velocità per poterlo fare il doppio delle volte…perché non te la godresti». E così viene da chiedersi dove sia la qualità del rapporto e dell’ascolto quando tutto va così di corsa.
«Questa idea della nostalgia di futuro – sottolinea D’Avenia – mi viene dalla necessità di tenere insieme il concetto di destino con il tempo presente. Il destino ti dice: ti è capitato qualcosa che non hai scelto, la vita, con tutto quello che c’è dentro, ma il nostro compito è poi quello di trasformare il destino in destinazione». Interpretare il destino come destinazione significa scegliere una rotta, una traiettoria, non tirare le somme e fare i conti ogni giorno, ogni minuto. Significa correre la maratona, non i 100 metri, e quindi sapere che avrai varie velocità, ci sarà il cambio di passo, il momento in cui sei in difficoltà, in cui vai in crisi, quello in cui riparti, è qualcosa che parla di te, del tuo modo di essere. La carriera invece deve dare delle risposte soddisfacenti agli altri, al resto della società e questo ci costringe a metterci delle maschere e fa nascere l’ansia della prestazione.
Per questo io credo che una risposta alle ansie possa trovarsi nel riappropriarsi di un tempo che sia diverso dal “tempo reale”, un tempo in cui ci si conceda lo spazio per capire le cose, per sentirne il gusto, per viverle.
Un tempo in cui ci siano anche cose gratuite, nel senso di non programmate, magari inattese: lasciare aperta un po’ la porta perché possano accadere cose che non abbiamo previsto e preparato. Le giornate in cui questo accade, in cui succede qualcosa che ci stupisce, che ha un senso, diventano giornate memorabili.
«È quello che un tempo si chiamava: la grazia – dice Alessandro -. Il tema del tempo però è sempre collegato a quello dello spazio: adesso, attraverso il telefono che abbiamo in mano, è l’esperienza ad arrivare a noi, non siamo noi che andiamo verso il mondo. Ma dobbiamo farci una domanda: facciamo veramente esperienza del mondo quando il mondo arriva a noi e noi siamo passivi, o è esperienza quella di un corpo che va verso le cose?».
La mia risposta, anche questa volta, è stata di andare a cercare, prendere treni, camminare, dormire in un eremo, arrampicarmi in un bosco, stare fermo in stazione ad osservare, ascoltare suoni antichissimi, guardare il cielo con un’astrofisica e farmi raccontare il cervello da un neuroscienziato. E alla fine del viaggio da cui è nato il libro la risposta mi ha rincuorato: esiste la possibilità di dare un valore diverso al tempo, recuperare il gusto delle cose e delle parole ed esiste sempre la possibilità di cambiare.