10 Settembre 2020

Marisa, dire basta dopo 50 anni di violenze

Marisa ha 80 anni e per 55 ha sopportato le violenze, gli insulti e le minacce del marito. Durante il lockdown, però, ha capito che era ora di dire basta. Ha chiamato la polizia e l’ha denunciato. Adesso vuole un po’ di pace e lancia un messaggio alle giovani donne: ribellatevi agli abusi, senza esitare un solo istante
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Due settimane prima di compiere ottant’anni, la signora Marisa decise che non poteva più sopportare, fece finalmente quello che non aveva avuto il coraggio di fare per tutta la vita: denunciare le violenze dell’uomo che aveva sposato nel 1965 e con cui aveva fatto due figlie. Quella sera, era il 9 marzo di quest’anno, dopo averla insultata per ore, lui le aveva stretto le mani al collo e puntato un coltello alla gola. Lei, per sfuggirgli, aveva cominciato a correre intorno al tavolo, lui l’aveva inseguita con il coltello ma lei era riuscita ad arrampicarsi sul soppalco dove dormiva. Prese allora il telefono e dopo 55 anni di paura, indecisioni e soprattutto troppi scrupoli, chiamò il 113. Poi disse semplicemente: «Ho chiamato la polizia». Marisa aveva deciso che voleva provare a essere libera.

Alcamo, 2 gennaio 1966. Franca Viola, la prima donna in Italia a rifiutare il matrimonio riparatore, seduta negli uffici del Commissariato di polizia dopo essere stata liberata dai suoi rapitori e violentatori (foto ©Sergio Del Grande/Mondadori Portfolio)

«Lui non poteva crederci che lo avessi fatto, si calmò e si mise a sedere sul divano. Rideva nervoso. Quando i poliziotti suonarono alla porta andò ad aprire con la faccia di un agnellino, incredulo che mi fossi permessa di ribellarmi». Marisa si vergogna di raccontare cosa ha sopportato, lo ha fatto in una lunga deposizione in Commissariato e il 29 settembre lo ripeterà davanti al giudice, quando il marito andrà a processo con il rito abbreviato. È stata lontana da giornali e televisioni, non vuole notorietà e rumore, sogna solo pace e un po’ di silenzio. Ha accettato di raccontarmi la sua storia per un unico motivo: «Per dire alle giovani donne di avere il coraggio di denunciare subito, di non aspettare anni, di non farsi illusioni, di non rischiare di farsi ammazzare e di non sprecare una vita intera come ho fatto io».

Il 9 marzo era il primo giorno di lockdown: «Eravamo chiusi dentro casa da più di una settimana, da quando il virus aveva cominciato a uccidere, e questo peggiorò le cose. Prima lui stava tutto il giorno sulle panchine, ora si era messo a bere in continuazione, era diventato ancora più violento e pericoloso. Avevo paura, mi feci spiegare da un’amica come fare e cominciai a registrare sul telefono gli insulti e le minacce. Avevo pensato: forse, se sentono, mi crederanno».

Abbiamo scelto di ritrarre tre donne simbolo della lotta contro la violenza di genere. Questa è Franca Viola. Il 26 dicembre 1965, Franca ha quasi 18 anni e vive ad Alcamo, in Sicilia, dove ancora abita. Il nipote di un boss locale, Filippo Melodia, le ha messo gli occhi addosso. Lui e dodici uomini della sua banda la rapiscono insieme al fratello minore. Li portano in campagna; poi liberano il bambino e tengono Franca per alcuni giorni in casa della sorella di Melodia. Per l’articolo 544 del codice penale (poi abrogato) i reati di sequestro di persona e violenza sessuale si estinguerebbero se la ragazza sposasse Melodia. Ma lei, appoggiata dai genitori, rifiuta. È la prima in Italia a dire di no alle nozze riparatrici. Nel 1966, a Trapani, inizia il processo a carico della banda. Vengono tutti condannati. Melodia sconta dieci anni di carcere e due di soggiorno obbligato vicino a Modena. Lì viene ucciso nel 1978. Franca, intanto, si è sposata e ha avuto due figli (ritratto di Marta Signori)

Gli audio raccontano una vita da incubo. In sottofondo si sente la televisione, che è sempre accesa in un’infinita diretta che parla del Covid-19, dei malati, delle cure, del lockdown. Poi si sente la voce di lui, che ripete senza sosta la sua litania di insulti: «Sudicia, maiala, troia, infame, schifosa». Se Marisa osa chiedergli di smetterla inizia a bestemmiare, alza il tono e le grida: «Non parlare, mi fai schifo! Se riapri la bocca ti tiro un piatto in faccia». La accusa di essere stata troppo al telefono, di aver mandato un messaggio a un’amica, di non aver pulito, di non aver preparato da mangiare, di aver sbagliato a fare la spesa, qualunque motivo è valido per insultarla e minacciarla. Appena lui inizia a bere, lei si rifugia nel piccolo soppalco dove ha messo il letto, a cui si accede da una ripida scala a chiocciola che lui fatica a salire. Allora lui la bersaglia con un lancio di oggetti. Nelle registrazioni si sente il rumore delle tazze e dei piatti che vanno in pezzi e la voce alterata: «Vengo su e ti butto di sotto».

Marisa ha sopportato le violenze fisiche e verbali per tutta la vita ma ora sente di essere in pericolo, guarda con ansia ai coltelli, al martello e al fucile da cacciatore. L’arma è la prima cosa che i poliziotti porteranno via e nella denuncia lei racconterà che nell’ultimo periodo le puntava il coltello alla gola quasi tutte le sere. La polizia dopo aver raccolto la sua testimonianza, quella delle figlie, degli assistenti sociali e della vicina, si ripresenta a casa e lo invita a fare la valigia, lui non capisce, allora loro gli notificano il divieto di avvicinamento e lo portano via, andrà a casa della figlia in attesa del processo.

Questa storia si svolge in una casa popolare di due stanze a Firenze e inizia nel 1962: «Avevo 22 anni, dopo la festa per le nozze d’oro dei miei nonni decisi di andare in balera con un’amica. Eravamo appena entrate quando un ragazzo mi invitò a ballare il liscio con lui. Aveva solo sei mesi più di me, era bello, sportivo, faceva il meccanico ed era bravissimo a giocare a calcio. Ai miei occhi era perfetto e quella coincidenza con i cinquant’anni di matrimonio dei nonni mi parve un segno. Cominciammo a uscire insieme, lui aveva un piglio molto maschio e questo allora mi sembrava una cosa bella. Diceva di amarmi alla follia e decidemmo di sposarci dopo tre anni di fidanzamento. Ma poco prima delle nozze iniziai a vedere le prime nubi: se qualcosa non andava come voleva allora cominciava a gridare. Io pensavo che l’avrei calmato, illudendomi che sarebbe cambiato».

Si sposarono nel 1965, la prima figlia nacque nel ’68 e la seconda nel ’75: «Dopo le nozze diventò sempre più prepotente e possessivo, cominciò a pretendere rapporti sessuali particolari e violenti, all’inizio lo assecondavo per quieto vivere ma non si può sempre dire di sì e farsi usare, allora ho pronunciato il primo “no”. Da lì sono cominciati i veri guai: non era previsto che io potessi dire che una cosa non mi andava bene, per lui ero una sua proprietà, come se mi avesse comprato. Reagiva con delle furie che non erano dell’umano». Racconta tutto con una voce forte e squillante e un marcato accento toscano, ma quando ricorda le prime violenze si ferma, non riesce ad andare avanti e dice soltanto: «Che umiliazione, mi vergogno anche a raccontarla la mia vita».

Lucia Annibali ha 36 anni e fa l’avvocato a Pesaro. La sera del 16 aprile 2013 sta rientrando in casa, quando un uomo spalanca la porta dall’interno e le tira del liquido corrosivo in faccia. L’uomo si chiama Rubin Ago Talaban, è albanese e, insieme al connazionale Altistin Precetaj, è stato ingaggiato dall’ex fidanzato di Lucia, Luca Varani. Lui non si rassegna alla fine della relazione e la perseguita, fino a diventare mandante dell’agguato. Sarà condannato per tentato omicidio, lesioni gravissime e atti persecutori a 20 anni di carcere; per i due sicari la condanna sarà di 12 anni. Lucia ha il volto sfigurato, inizia un calvario di interventi chirurgici, ma trova la forza di andare avanti; viene nominata cavaliere della Repubblica e dal 2018 è deputata. Sa che la sua storia può essere d’esempio e racconta di avere un rimpianto: non aver denunciato prima Varani (ritratto di Marta Signori)

Marisa da ragazza lavorava in un calzaturificio, poi prese un’intossicazione e passò in una fabbrica di scatole; quando questa chiuse, si mise a fare le pulizie nelle case ma non guadagnava abbastanza da essere autonoma, nel frattempo aveva perso i genitori e con loro l’idea di avere degli alleati.
Lei e il marito vivevano in un minuscolo appartamento, la bambina piccola dormiva in cucina, mancavano sempre i soldi, aumentavano le tensioni e le violenze e lui cominciò a tradirla. Nel 1976 lei propose la separazione consensuale, lui accettò, aveva un’altra donna e tornò a vivere da sua madre, ma presto anche lei lo buttò fuori.

«Io non lo volevo più vedere, ma le figlie ogni giorno chiedevano che tornasse, piangevano, urlavano e mi facevano sentire in colpa. Un anno dopo si presentò alla porta, mi disse che aveva capito i suoi errori, che era cambiato, mi fece una montagna di promesse. M’illusi e lo lasciai rientrare. Durò poco, lui tornava a notte fonda ma non voleva che uscissi, era violento e, se osavo discutere, mi prendeva per il collo. Lo imploravo di non farlo davanti alle figlie, ma non aveva nessun freno». La più grande ricorda tutto benissimo, alla polizia ha raccontato delle minacce e del lancio di oggetti fin da quando erano piccole: «Mia madre è stata insultata e minacciata tutti i giorni della vita, dalla mattina alla sera».

Quando le figlie escono di casa, all’inizio degli anni Novanta, la situazione peggiora ulteriormente: «Continuava a pretendere di avere certi rapporti, brutti e malati. Ricordo la sua reazione quando gli dissi di non toccarmi più: “Non ci sono più le ragazze a difenderti, se voglio ti lego e faccio quello che mi pare”. Gli risposi: “Tu sei un grullo, abbiamo più di cinquant’anni, lasciami in pace”. Allora lui prese un cuscino e minacciò di soffocarmi. Gli dissi che l’avrei denunciato, rispose con un ghigno: “Che vuoi fare, bastarda, tanto nessuno ti difende». Le chiedo perché rimase ancora lì, le figlie ormai erano grandi: «Perché non avevo un posto dove andare e i soldi per vivere e così mi inventai il soppalco, un posto dove rifugiarmi».

Il suo inferno privato prosegue per altri 15 anni, poi, quando si avvicina ai 70 (siamo nel 2009), si rivolge ai servizi sociali del Comune di Firenze che si attivano subito: tentativi di mediazione, terapia familiare, propongono servizi di assistenza domiciliare, aiuti per le commissioni, la pulizia della casa; il marito è aggressivo con le assistenti sociali e rifiuta tutto. Marisa grazie al sostegno riesce a separarsi legalmente nel 2010 e non avendo dove stare accetta di andare a convivere con un’altra anziana a cui dava aiuto e assistenza. La donna, però, morì due anni dopo e lei si trovò di nuovo per strada. La figlia la convinse ad andare dalla suocera che aveva 103 anni. Un altro inferno: «Mi faceva fare la cameriera, non avevo ancora diritto a 73 anni ad avere la mia vita». L’anno dopo anche la suocera venne a mancare.

Marisa abbassa la voce, non vorrebbe nemmeno dirmi cosa è successo dopo: «Tornai a casa con lui. Mia figlia cominciò a dirmi che piangeva tutti i giorni: “Mamma, guarda che ha fatto i conti con sé stesso, è pentito, è solo, è depresso, ha il diabete, cade spesso per terra e io non me ne posso occupare. Prova, ti prego, intanto fai domanda per un alloggio”». La figlia maggiore non ne vuole più sapere e si è allontanata, la minore, che fa l’infermiera e vive sola con una bambina di sei anni, non vuole il carico del padre. Così Marisa torna nelle due stanze della casa popolare con l’ex marito, ormai hanno 76 e 77 anni. La calma dura pochi giorni, ricominciano subito i maltrattamenti verbali, fisici, le minacce, il lancio di oggetti. I servizi sociali fanno segnalazioni all’autorità giudiziaria nel 2015, 2018, 2019, propongono soluzioni ma si scontrano sempre con due dati: Marisa non vuole denunciare il marito perché pensa che perderebbe il rapporto con le figlie e non accetta l’inserimento in una casa-rifugio perché significherebbe non poter più vedere la nipote.

L’attrice americana Alyssa Milano, 47 anni, è famosa per essere stata tra le protagoniste della serie tv “Streghe” e per aver lanciato – il 15 ottobre 2017 – la campagna #MeToo. È appena scoppiato lo scandalo degli abusi sessuali che travolge il mondo dello spettacolo e non solo, con le denunce fioccate a carico del produttore cinematografico Harvey Weinstein, quando Alyssa pubblica su Twitter l’appello a rompere il silenzio: «Se tutte le donne molestate o violentate scrivessero “Me too” nel loro status, potremmo far capire quant’è vasto il problema». A incoraggiarla, la collega Rose McGowan, tra le prime ad accusare Weinstein. In 24 ore #MeToo riceve mezzo milione di adesioni; campagne simili nascono su altri social e in altri Paesi (ritratto di Marta Signori)

Poi arriva il virus e quella telefonata: «In Commissariato sono stati gentilissimi, io tremavo, mi hanno ascoltata, mi hanno rassicurata, non potevo credere a tanta attenzione e correttezza. A un certo punto mi hanno anche accompagnata in bagno, non avevo mai ricevuto tanta gentilezza in vita mia». Le chiedo perché non l’ha fatto prima, perché non è andata a denunciarlo quarant’anni fa. «Perché era un’altra Italia, perché pensavo che non mi avrebbero creduto, perché si dava ragione agli uomini. Ho sprecato la vita». Il suo avvocato, Mattia Alfano, la rassicura, le parla di un futuro senza incubi. Lei finalmente sorride.

Le chiedo se ha dei progetti: «Sì, rimettere a posto quelle due stanze e, per il tempo che mi è rimasto, vivere in pace, frequentare le amiche, fare la nonna e mostrare alle mie figlie che alla fine ho fatto la cosa giusta. E se posso, parlare anche alle ragazze giovani». Per dire cosa? «State attente ai segnali, non sottovalutateli e non giustificateli. Certo, le persone possono cambiare ma non fatevi illusioni, chi è nato storto non diventa dritto. Non fate l’errore di pensare: “Io lo cambierò, io lo salverò”; questa idea da infermiera del bene non porta da nessuna parte. E sopportare in nome dei figli è un tragico sbaglio: non sono stata una buona madre a restare. Cosa impara un figlio di fronte alla violenza quotidiana? E si smetta di usare quelle frasi terribili che provano a giustificare l’ossessione possessiva di certi uomini dicendo che è “troppo amore”. Non è amore, è solo egoismo, per la violenza non esistono giustificazioni».

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