Qualche anno fa fecero ripartire l’orologio. Quello là in alto, dico. Quello che guarda la stazione ricostruita ed era fermo dal giorno dell’esplosione. Dissero che la gente si confondeva, che pensava fossero sempre le 10.25. E senza accorgersene scolpirono quel che per noi bolognesi, quelli della mia età, quelli che basta distrarsi un attimo e bum, ogni volta che prendiamo un treno, ecco l’eco della bomba che scoppia improvviso, è uno stato dell’anima. Poi rimisero le lancette a posto. C’erano state proteste. Chissà se ci sarebbero oggi. Chissà.
Quest’anno, appunto, fanno quaranta. Quaranta da quando qualcuno pensò (anzi: ci pensava già da piazza Fontana) che per abbattere il muro di Berlino bisognasse tirar giù quelli delle banche, i palchi dei sindacati, i treni, appunto le stazioni. E che, possibilmente, si dovesse fare nei pressi di una vetrina. Gli strateghi della tensione si sono sempre trovati bene, a Bologna. Che fosse l’Italicus, o la sala d’aspetto di seconda classe. Oppure il Rapido 904. Lo ricordano in pochi, quello. Pare c’entrasse la camorra, quella volta. Dovendo scegliere, i cutoliani, scelsero sempre noi. La vetrina, appunto. Vista Pci. Dove si mandavano all’asilo, i bambini. Non si cucinavano. E questo era antitetico alla narrazione atlantica. Tic tac.
Mio padre era ferroviere. Nulla di epico: usciere all’Officina Materiale Rotabile. Dacché era fuggito da uno stalag nazista, di quelli per militari italiani renitenti a Salò, aveva (giustamente) trascorso la vita a dribblare il lavoro. Una mano gliel’aveva data anche Scelba. Era alla Polfer subito dopo la guerra. Mio padre, non Scelba. Fu vittima del maccartismo all’amatriciana. Invece di mandarli a processo, i comunisti, li fornivano di grembiule nero e li mettevano dietro una scrivania in legno massello. Bastava che stessero lontani dalle forze dell’ordine. Eppure, mentre il mestiere un tempo nobile scoloriva, non cessava di gioire per ogni passetto modernizzatore. «Vieni, ti faccio vedere il Caimano». Parlava di locomotori, non di iscritti alla P2. Che pure, con la stazione che salta in aria, un legame profondo ce l’ha.
Quel giorno il babbo mi accompagnò sul ponte di Galliera, che scavalca i binari. Quel giorno, era sera. Mi aveva svegliato il botto ma non avevo collegato. Poi accesi il piccolo Itt a 21 pollici, primo tv color comprato non senza importanti sacrifici, e d’un tratto la musica d’attesa del monoscopio cambiò suono. Non più motivetti allegri. Musica classica. Il Tg2. Il collegamento con Bologna. C’era un certo Zanni, di Imola, mi pare. Un accento importante. Le prime immagini. Mio padre che dice: «I fascisti». Verso metà pomeriggio mia madre (lavorava in un’agenzia distribuzione giornali) arriva a casa con l’edizione del “Carlino” che parlava di una caldaia. Il babbo ripete: «I fascisti». A sera, appunto, andammo. Il ponte era pieno. Scendendo, a destra, si passava davanti alla stazione. Andando dritti, si arrivava al Nettuno, in piazza Maggiore. In dieci minuti. Bologna è piccola, non si perde neanche un bambino. Ma il bambino, io, a destra stavolta non poteva arrivarci. Così ci fermammo lì. Sul ponte. Restammo fino a che il Sole si stancò di illuminare il disastro. E la luce là in fondo divenne livida. Le famose fotoelettriche. Tornammo a casa. Bruno Vespa annunciava che c’era stata una fuga di gas. Mio padre: «I fascisti».
A Bologna non c’è un solo ultratrentenne che non abbia avuto un affetto scomparso sotto le macerie, o uno che ce l’ha fatta per miracolo, o che era lì a pochi minuti dallo scoppio. Come sempre accade, ci sono anche un bel po’ di mitomani. Gente che non si ascolta, mentre dice «pensa, c’ero passato appena un mese prima». Oppure: «Mio zio faceva il ferroviere. A Mestre». Però gli vogliamo bene lo stesso. Perché rappresentano una specie di fibra ottica del ricordo. Nel senso che al massimo hanno visto, o gliel’hanno raccontato, dei taxi travolti dai mattoni, del bus coi lenzuoli, dei cadaveri sotto i lenzuoli, della piccola Angela Fresu diventata ancora più piccola, fino a scomparire, di chi lavorava nel self service, di quelli che stavano nell’ufficio sopra, del treno sul primo binario imbrattato di sangue, dei bolognesi in fila per donarlo, il sangue, delle indagini a rilento, dei depistaggi, dei segreti di Stato, della rabbia perché già vent’anni fa i liceali pensavano fossero state le Brigate rosse.
Quest’anno non ci sarà il corteo. Si parla da anni di abolirlo. Un po’ perché gli esecutori li hanno trovati, e sono comodamente liberi. Un po’ perché i mandanti li conosciamo anche senza essere Pasolini. Un po’ perché stanno finendo i ministri da fischiare. Non ci sarà per motivi legati al Covid, anche se il ritegno con cui Bologna affronta il lutto, ogni anno, rappresentava la miglior garanzia di uno svolgimento ordinato. Così, l’altro giorno, ho registrato uno dei messaggi che il 2 agosto verranno proiettati sugli schermi posizionati lungo via Indipendenza. E ho detto una bugia. Cioè: ho assecondato la speranza del testo che mi avevano dato da leggere, ossia che i bitumatori della democrazia, quel grumo nerastro di Stato, Stati, manovalanza fascista, non avessero vinto. Che alla fine la reazione composta della mia gente fosse non già quieto vivere ma una dignitosa richiesta di verità.
Non lo so più se è così. So che il comunismo al ragù (forse unica combinazione destinata a un possibile successo per eccesso di felicità, accanto al socialismo e Caraibi di stampo cubano prima dell’embargo) è morto quel giorno. Che quel momento rovente di Guerra fredda ci ha cambiati e non in meglio. Che se non fosse per i parenti delle vittime – i quali vorrebbero ancora sapere, giustamente, ma vittime di chi? – mi verrebbe da cedere alla deriva nichilista che da quel giorno ha sparso il sale dell’ovvietà su una città che era straordinaria. Vista di sbieco, Bologna mantiene una sua bellezza fatta di governo decente, qualità della vita molto più che accettabile, macchina culturale che tritura risultati, ma se la guardi di fronte ti appare per quello che è: una bellezza relativa. Come in un lento corteo verso l’omologazione.
Forse è per questo che quest’anno, proprio quest’anno, mi spiacerà non essere in piazza a zittire, più che i tizi sul palco, i soliti quattro arroganti che pretendono di intestarsi la nostra memoria. Ecco, loro no, non mi urta affatto che non ci siano. Mi spiace per me, per i miei figli, per i figli dei miei amici. Ma non è affatto impossibile che alle 10.25 ci troviate ugualmente nei dintorni. Ad aspettare invano il fischio del treno che ogni anno ci ricordava come eravamo. E come hanno voluto che non fossimo più. Magari sul ponte. Ché, di sbieco, la stazione sembra quasi calma, e persino bella. Uguale a com’era alle 10.24 del 2 agosto 1980.
*Luca Bottura è un autore televisivo, conduttore radiofonico, giornalista satirico e non. Scrive per “la Repubblica”, “L’Espresso”, “Oggi”. Ha lavorato a “Cuore”. Il suo ultimo libro è “Buonisti un cazzo” (Feltrinelli, 2020).