La sua prima notte di libertà Cecilia l’ha passata tra la finestra e il balcone, ascoltando la musica nelle cuffie, e respirando. Più di tutto – dice – ha bisogno di aria, di cielo, di spazio. Per tre settimane ha cercato di comprendere il passare delle ore guardando da una minuscola finestrella in cima al muro della sua cella, una sola volta è stata portata in un cortile con il filo spinato, ma lì ha visto il cielo, e si è commossa. Ascoltandola e osservandola ho capito che libertà può voler dire guardare le nuvole ma soprattutto poter sentire delle voci. Che il nemico peggiore della nostra testa è il silenzio. L’isolamento che ti prosciuga e ti spezza.
Entrando in casa c’è profumo di arrosto, poi di frittata. Elisabetta, la mamma di Cecilia, da mercoledì sera, quando è tornata in Italia, cucina. Si prende cura di quella figlia che in queste ultime tre settimane si è fatta apparentemente più fragile. Ma il suo abbraccio è fortissimo e la sua forza intatta.
Ho capito che era davvero tornata nel momento in cui l’ho vista scendere dalla scaletta dell’aereo all’aeroporto romano di Ciampino. Ho trattenuto il fiato, avevo paura di leggere la fatica nei suoi passi, di vederla piegata; invece ha saltato e ha corso sulla pista verso Daniele, il suo compagno. Allora alcune luci che dentro di me si erano spente il 19 dicembre, si sono riaccese: ho sentito le paure e le angosce dissolversi.
Sono esattamente tre anni che lavoro insieme a Cecilia Sala; il podcast quotidiano che ci siamo inventati – Stories – ha visto la luce il 10 gennaio del 2022. In questi 36 mesi sono uscite 690 puntate, un viaggio infinito per raccontare il mondo. Spesso ho avuto paura per lei: ricordo quando, al telefono con lei, ho sentito suonare gli allarmi a Kiev, il fiatone con cui correva a cercare un rifugio per proteggersi dai missili russi, ma un’angoscia così lunga e continua non l’avevo mai provata. Per tre settimane non ho fatto altro che pensarla e occuparmi di parlare con tutte le persone che potevano aiutarla a tornare a casa. Ogni volta che andavo a dormire, o mi sedevo a tavola pensavo al fatto che lei, invece, non aveva nemmeno un letto, che il cibo le veniva passato da una feritoia.
Adesso è qui davanti a me, ci mettiamo di fronte a un microfono per ripartire dal suo podcast, per registrare il suo racconto delle tre settimane nella prigione iraniana di Evin. L’intervista completa la potete ascoltare qui.
Si emoziona spesso, la voce si rompe, si sente quasi in colpa di essere libera pensando a tutte quelle donne che sono rimaste nella prigione da cui lei è uscita.
Le chiedo subito quale sia stata la cosa più difficile. «Il silenzio. L’isolamento. A un certo punto mi sono ritrovata, per passare il tempo, a contare i giorni, a contare le dita, a leggere gli ingredienti del pane che erano l’unica cosa in inglese. Quando non hai nulla da fare e non ti stanchi, allora non hai sonno e non dormi. E già lì dentro un’ora sembra una settimana. E se non dormi e devi riempirne 24 di ore, allora è ancora più faticoso. La cosa che più volevo era un libro, qualcosa che mi portasse fuori da quella situazione, un’altra storia in cui immedesimarmi».
«La prima cosa che mi sono ripromessa in quella cella è che non avrei mai più passato una giornata intera in una stanza al computer, che non ci sarebbe stata più una giornata della mia vita in cui non sarei stata all’aria aperta almeno per un po’. E adesso ho molta voglia di andare al mare, anche se fa freddo».
Anche nei momenti in cui era più positiva sul suo destino non ha mai pensato che sarebbe stata liberata così presto: la interrogavano ogni giorno per ore e la sensazione è che stessero provando a costruire un’accusa grave, di quelle che ti tengono prigioniera per mesi o per anni. Conosceva troppe storie terribili di quelle mura per farsi illusioni. «La prima volta che mi hanno detto che sarei stata liberata non ci ho creduto. Pensavo che fosse un trucco».
«Negli ultimi giorni mi avevano dato un libro (“Kafka sulla spiaggia” di Murakami, in inglese), mi avevano dato gli occhiali ed era arrivata un’altra persona nella stanza. Lei non parlava molto l’inglese, io parlo poco il farsi, però qualcosa riuscivamo a comunicare con gesti, coccole, abbracci, sorrisi, risate. Avevamo dei giochi semplici per tenerci allegre o impegnate. Io le ho insegnato qualche parola in inglese e lei qualche parola di persiano. Ma quando mi hanno detto di nuovo che mi avrebbero liberata, la prima cosa a cui ho pensato è stato il momento in cui io me ne sarei andata e lei sarebbe rimasta lì. Al fatto che lei sarebbe stata di nuovo sola, come lo ero stata io per tanti giorni. Ed era stata ovviamente la condizione più difficile psicologicamente da reggere. Credo che ci sia un senso di colpa dei fortunati, perché io lo sono stata molto. L’abbraccio con lei è stato molto potente prima di andare via».