2 Novembre 2024

America oggi

L’America è stato il Paese dei miei sogni. L’ho conosciuta da lontano, l’ho visitata ogni volta che potevo e infine è stata anche la mia casa per qualche anno. L’ho amata perché era la terra delle opportunità per tutti. Alla vigilia di questa elezione vedo un paese diverso che mi preoccupa perché è profondamente diviso e alla continua ricerca di nemici. Vi racconto la mia educazione sentimentale americana
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Per molto tempo l’America è stato il Paese dei miei sogni, quello dove avrei voluto studiare, viaggiare, vivere. Immaginavo soprattutto New York, l’avevo conosciuta nei film di Woody Allen, in una pellicola che fece il pieno di Oscar come Kramer contro Kramer, con la battaglia drammatica tra Dustin Hoffman e Meryl Streep per avere la custodia del figlio dopo la separazione, negli articoli di giornale, soprattutto in quelli di Gianni Riotta sul Corriere della Sera e in tanti libri.

La locandina del film Manhattan con Woody Allen e Diane Keaton seduti su una panchina con il Ponte di Queensboro sullo sfondo 

A darmi la sensazione più forte che quella era la città dove volevo vivere, dove volevo perdermi, erano stati una serie di racconti raccolti nel volume “La città profonda” scritto da Furio Colombo e illustrato da Tullio Pericoli. Era uscito quando avevo compiuto 18 anni e mi aveva fatto vivere le storie sotterranee di Manhattan, tra i cunicoli della metropolitana dove vivevano colonie di homeless, mi aveva fatto camminare nelle avenue paragonate a lunghissimi e profondi canyon, mi aveva spiegato il mito dei grattacieli e il declino la rinascita della più bella delle stazioni, Grand Central Station.

Poco dopo avevo incontrato un libro che si chiama “Strade Blu” (è un bel caso di sintonia se la collana con cui escono i miei libri da Mondadori si chiami proprio così) scritto da William Least Heat-Moon, un insegnante di inglese che dopo aver perso il lavoro ed essersi separato dalla moglie aveva deciso di partire per un lungo viaggio nell’America profonda con un furgone scassato, trasformato per l’occasione nella sua casa. Come compagna di viaggio si era portato “Foglie d’erba”, la più bella raccolta di poesie di Walt Whitman. Le “strade blu” erano le rotte minori e secondarie dell’America rurale, dove Least Heat-Moon aveva raccolto storie minori ma affascinanti e mai deludenti. La colonna sonora di questa America che immaginavo, ma non avevo mai visto, era la musica di Bruce Springsteen, soprattutto quella dell’album “The River”.

Così grazie al cinema, ai libri, alle canzoni e agli articoli di giornale che ritagliavo e conservavo, si era costruito il mio immaginario. Quello di un Paese pieno di storie, di fatica, di avventure e di spazi immensi, una società che sogna, resiste, rinasce e va sempre avanti, una nazione che include chi arriva e trasforma gli immigrati in cittadini.

“Strade Blu” di William Least Heat-Moon e “La città profonda” di Furio Colombo

Nell’estate dei miei 21 anni, dopo aver risparmiato facendo l’edicolante e il tabaccaio, lo spalatore di neve e il sondaggista, sono partito per il mio primo corso d’inglese, all’università di San Diego. Quando si è aperta la porta degli Stati Uniti ho trovato la luce della California e il Pacifico: un battesimo che andava al di là di ogni mia aspettativa.

Poi ci sono stati il Grand Canyon, il deserto e infine New York. Non dimenticherò mai l’emozione che ho provato alla vista dello skyline mentre con il taxi arrivavo a Manhattan. Il sole stava tramontando e quelle luci sui ponti e grattacieli mi erano assolutamente familiari: talmente tanto l’avevo vista e immaginata che mi sembrava di essere a casa. Ci sarei tornato d’inverno, scoprendo la meraviglia di una gigantesca nevicata che paralizzò la città e la rese incredibilmente silenziosa.

Alcuni anni dopo sono stato accettato ad uno stage al Corriere della Sera, nel vecchio palazzo della libreria Rizzoli a New York. Quella del ‘94 probabilmente è stata l’estate più entusiasmante e formativa della mia vita, non solo una grande palestra di giornalismo, ma la scoperta delle università (dormivo nel campus di Columbia University), dei musei, del parco, dei riti newyorkesi. La mappa con le zone pericolose e quelle dove invece potevo andare tranquillamente; i murales a segnalare i confini dei quartieri dove era meglio non entrare; i “deli” – le gastronomie gestite dai coreani – dove ti accoglievano vasche di cibo fumante e si potevano comprare anche fiori e giornali; le “Little Italy” di Brooklyn e del Bronx dove i vecchi parlavano ancora in dialetto e raccontavano la loro America. 

Da quel momento non c’è stato anno in cui io non andassi a New York, finché nel 2007 non ho coronato il mio sogno di andare a viverci

L’interno della storica libreria Rizzoli a New York, al numero 31 della 57ª strada. © Facebook  Rizzoli Bookstore / Driely S.

Come corrispondente di Repubblica dagli Stati Uniti ho seguito tutta la campagna elettorale che ha portato Barack Obama alla Casa Bianca, sono stato in 36 Stati Americani, ho attraversato il Paese in treno, in autobus, in macchina. Ho ascoltato Hillary Clinton parlare a lungo con la madre di un ragazzo disabile in una caserma dei vigli del fuoco in un piccolo paese dell’Iowa; Michelle Obama raccontare la sua vita a un gruppo di insegnanti in un garage del New Hampshire; John McCain rispondere alle domande dei giornalisti in un autogrill della Sud Carolina; Rudy Giuliani cercare di convincere un gruppo di famiglie riunite in una casa con il camino acceso in mezzo durante una nevicata. Ho intervistato Bill Clinton nel bagno di un pub, inseguito Barack Obama nella hall di un albergo di Berlino (quando aveva deciso di fare una tappa di campagna elettorale in Europa) e intervistato sua sorella nella scuola di Honolulu dove avevano studiato.

In quelle elezioni avevo scoperto anch’io l’America profonda, parlando con i passeggeri del treno da Chicago a New Orleans, percorrendo finalmente le “strade blu”, incontrando le persone dimenticate e tagliate fuori dalla globalizzazione, quelle che sarebbero poi diventate il nocciolo duro del movimento di Donald Trump. Ricordo lo stupore di una ragazza alla reception in un motel del West Virginia quando le consegnai il mio passaporto: non ne aveva mai visto uno e corse a chiamare la sua collega per mostrarglielo. 

Una foto dello storico discorso di Barack Obama a Berlino nel 2008. CC BY 4.0 – Matthias Winkelmann – Obama In Berlin

Sotto gli occhi avevo un Paese in crisi, in cui centinaia di migliaia di famiglie perdevano la casa e andavano a vivere in auto perché non riuscivano più a pagare i mutui, un’America che voleva il cambiamento ma credeva ancora nella speranza e che avrebbe eletto il primo presidente nero
Ricordo quello che allora era il suo vice, Joe Biden, che ripeteva: “Non importa quante volte cadi, l’importante è la velocità con cui ti rialzi”. 
Ho amato molto quella miscela di energia e pragmatismo, di tenacia e speranza.

Oggi mi spaventa il fatto che gli Stati Uniti siano così profondamente divisi, che ci sia un muro che separa le comunità e spacca le famiglie e che ci sia un candidato, l’ex presidente Donald Trump, che indica continuamente i nemici: quelli esterni, i migranti, e quelli interni, i magistrati, i giornalisti, i funzionari pubblici. Trump cavalca la rabbia, la gonfia e ci specula.
Queste elezioni, così raccontano i sondaggi, si decideranno per poche migliaia di voti e in pochissimi Stati. Impossibile prevedere con certezza come andrà a finire. Intanto con Marco Bardazzi vi raccontiamo nel nostro podcast come si vota e come funziona il sistema elettorale americano e all’alba di mercoledì 6 novembre vi diremo chi avrà vinto (se si saprà…).

Per il futuro, non so quanto lontano, sono ottimista: l’America è stata divisa dalla Guerra Civile, dal proibizionismo e dalla stagione del maccartismo, quando i nemici interni erano perseguitati e incarcerati, ma è sempre riuscita a ritrovare un equilibrio e una direzione. Succederà anche questa volta.

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