Ci sono nella vita di ognuno di noi dei luoghi che lasciano un segno profondo nella memoria e che ci fanno compagnia per sempre. Ce ne accorgiamo perché ci creano nostalgia, perché riaffiorano quando meno ce lo aspettiamo. Sono i momenti che ci hanno definito. Se io mi guardo dentro vedo la porta laterale di una panetteria ligure, vedo il forno e sento il profumo della focaccia. Ero un bambino e quello era l’incanto. Ma ancora più forti sono l’odore e il rumore della metropolitana di Parigi, perfettamente incisi nella mia memoria e associati, dal giorno in cui ci entrai la prima volta con i compagni del liceo, ad una fortissima sensazione di avventura e di libertà.
È bello conoscere e riconoscere quali sono i luoghi, i momenti e le esperienze che ci hanno definito. Mi piace vedere i bivi della vita, della mia ma anche di quella degli altri. Ci ho pensato molto in questi giorni perché ho preso in mano un libro fotografico che racconta la relazione intima e potente tra un grande “misuratore di spazi” (come amava definirsi) e una città. Lui si chiamava Gabriele Basilico ed è stato il più grande fotografo di paesaggi urbani che io conosca, lei si chiama Beirut.
Gabriele arrivò a Beirut in una notte d’autunno del 1991, aveva 47 anni, e la guerra civile libanese si era conclusa da poco. Quindici anni di conflitto avevano causato 100mila morti e avevano lasciato un paesaggio di macerie sconfinato.
Nel buio di quella notte, Gabriele percepì una città spettrale ma fu solo la mattina dopo, con la luce, che gli apparvero i palazzi sventrati, le voragini nelle strade e la totale assenza di persone. Le uniche presenze umane erano i posti di blocco dell’esercito siriano. C’era un silenzio totale e nel muoversi doveva rispettare la raccomandazione di fare la massima attenzione a dove metteva i piedi, il terreno era pieno di mine. Una regola difficile da rispettare per un uomo che viveva scrutando il cielo, la luce e l’orizzonte degli spazi da fotografare.
Basilico non era solo, faceva parte di una missione di sei giornalisti eccezionali (tra cui Josef Koudelka e Robert Frank) che erano stati invitati per documentare le conseguenze della guerra civile, per testimoniare la distruzione e lasciarne memoria prima della ricostruzione. Sei persone per raccontare la stessa storia, sei punti di vista, sei fotografi liberi di interpretare una realtà sconvolgente. L’unica regola era la definizione del campo di azione: ognuno è libero di fare quello che vuole, ma deve restare all’interno di quell’area che è chiusa tra il mare, il quartiere cristiano e la tangenziale, proprio lì dove passava la linea verde, dove per più di quindici anni si è combattuto. «In un’area di un chilometro per un chilometro e mezzo – scrisse Basilico nei suoi appunti – si è sparato senza sosta, nelle strade, dalle finestre, dai tetti, fin nei luoghi più sacri e privati, come dimostrano le centinaia di bossoli di differenti calibri di proiettili che si possono trovare ancora negli angoli più impensati».
Dieci anni fa, poche settimane prima che Gabriele Basilico ci lasciasse, andai a trovarlo e passai molte ore con lui, per intervistarlo sulla sua vita e il suo lavoro. Partimmo proprio da Beirut, da quella città che gli era rimasta dentro e a cui avrebbe dedicato, dopo quella prima volta, altre tre “missioni fotografiche”.Mi raccontò che nei primi giorni non riusciva a trovare un filo, un modo per raccontare quello che vedeva: «Ero in difficoltà, non riuscivo a trovare un filo, non ero contento, non ero soddisfatto. Camminavo per la strada insieme a uno scrittore libanese, Sélim Nassib, provavo a scattare con una macchina 6×9, senza cavalletto, per prendere confidenza con lo spazio, ma non funzionava. Sélim capì il mio disagio e mi chiese, in modo molto diretto: “Sei in crisi?”. “Sì, non sono un fotografo di guerra e nemmeno un fotogiornalista e non so come approcciare questa storia, non so neanche da dove cominciare”. Allora Sélim mi disse di seguirlo e mi portò all’ultimo piano dell’Hilton, un ammasso di macerie che poi fu demolito. Fu una fatica arrivarci, c’erano detriti su tutti gli scalini e ognuno dei sedici piani era pericolante. Arrivati in cima, prima ancora che io potessi riprendere fiato, mi chiese: “Cosa vedi?”. “Una città distrutta”, risposi. Ma lui insistette con un tono perentorio: “Guarda più in là, cosa vedi?”. “Una città distrutta, non riesco a vedere altro”. “Guarda ancora più lontano: cosa vedi?”. Io misi a fuoco lo sfondo e vidi un po’ di fumo, dei panni stesi, cose vive. Allora lui mi disse quasi gridando: “Non è una città morta ma ferita, è ancora viva. Scendi. Scendi e fotografa questo”. Ho ascoltato le sue parole, ho fissato la linea dell’orizzonte e sono entrato in una vertigine: ho fatto seicento foto di grande formato in un mese. Avevo trovato la chiave per interpretare Beirut».
E su quella terrazza Gabriele Basilico scatta la mia foto preferita, una delle più potenti: «Al sedicesimo piano, sulla terrazza dell’Hilton, ho trovato quello che cercavo. Ho avuto bisogno di tempo ma poi tutto è stato chiaro: Beirut non era morta, sullo sfondo respirava ancora, potevo cominciare a fotografarla».
Oggi le foto di quell’autunno, insieme alle immagini scattate negli altri tre viaggi sono diventate un volume meraviglioso che si intitola “Ritorni a Beirut”, lo tengo sul mio comodino insieme a un libro che leggo a pezzi da anni – si chiama “Beirut” e lo aveva scritto Samir Kassir, un intellettuale libanese assassinato nel 2005 – e che racconta l’ascesa e la caduta di un luogo incredibile. Due libri che, insieme, ci mostrano come gli esseri umani siano capaci di creare ma anche di dividersi e di litigare all’infinito fino ad autodistruggersi. Due libri che servono a capire la pace.