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16 Dicembre 2021

Albie e la sua vendetta mite

L’attivista per i diritti sudafricano Albie Sachs anni fa perse un braccio e la vista per un attentato. E si è convinto che per compensare quel danno ci volessero non violenza e altro sangue, ma verità e libertà. I principi di un concetto bellissimo, quello della giustizia riparativa per cui ha lavorato insieme a Nelson Mandela
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«È la mattina del 7 aprile 1988, giorno di festa nazionale in Mozambico, sto andando in spiaggia, mentre cammino vengo travolto da un boato. Buio completo, so che mi sta succedendo qualcosa di terribile. Non so cosa. Buio totale, sento qualcuno che mi tira e urlo “Lasciatemi, lasciatemi”. Preferisco morire lì, ma non urlo troppo forte perché sono un avvocato e quello è un luogo pubblico. Poi silenzio. E buio. Nel buio sento una voce. E la voce mi dice: “Sei all’ospedale centrale di Maputo, il tuo braccio è in condizioni pietose, devi affrontare il futuro con coraggio”. Nel buio chiedo: “Che cosa è successo?”. La voce femminile risponde che è stata un’autobomba, allora svengo piombando di nuovo nell’oscurità, ma provo un senso di gioia».

Albie Sachs, attivista per i diritti sudafricano (© ANSA)

Quel giorno Albie Sachs aveva 53 anni; negli anni del liceo era diventato un attivista contro l’apartheid, poi un giovane avvocato che difendeva i ragazzi neri dalle leggi razziste, era stato arrestato più volte, viveva in esilio da 22 anni. Quel giorno – che secondo le intenzioni dei servizi segreti sudafricani che avevano preparato la bomba avrebbe dovuto essere l’ultimo della sua esistenza – cominciava invece la parte più importante ed entusiasmante della sua vita. E quell’esplosione lo avrebbe aiutato a diventare l’uomo straordinario che avrebbe affiancato Nelson Mandela nella costruzione di un nuovo Paese di cui avrebbe scritto la Costituzione, avrebbe lavorato alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione con il vescovo Desmond Tutu e sarebbe diventato giudice costituzionale. Oggi, a quasi 87 anni, Albie Sachs si batte ancora per i diritti, contro la corruzione, e continua a restare fedele a quel biglietto che gli diede suo padre quando compì sei anni, all’inizio della Seconda guerra Mondiale. Gli augurava di diventare un soldato, ma nella lotta per la libertà.

Ma torniamo a quella mattina del 1988 in cui, per l’esplosione, Albie Sachs perse il braccio destro e la vista da un occhio: «Pensavo di essere stato rapito per essere portato in Sudafrica. Era la mia paura. Ogni giorno e ogni notte, in maniera conscia e inconscia, pensavo: “Verranno a prendermi? Verranno oggi? Sarò coraggioso?”. Invece avevano cercato di uccidermi e io ero sopravvissuto. Toccai il mio corpo e scoprii che avevo perso un braccio, sentii una gioia fortissima: avevo perso solo un braccio.Ero vivo ed ero convinto al cento per cento che se io fossi guarito anche il mio Paese sarebbe guarito. Ho provato un senso di gioia totale quando ho capito che ero sopravvissuto. Non ho provato rabbia, mi sono sentito sollevato e felice e sapevo che avrei imparato a camminare, che avrei imparato a scrivere con l’altra mano, che avrei imparato ad allacciarmi le scarpe, che avrei imparato a parlare in pubblico e che avrei imparato a continuare a lavorare per creare una nuova costituzione per il Sudafrica».

La voce di Albie Sachs è allegra e potente, lo vedo attraverso uno schermo, è collegato da Città del Capo. Avrei dovuto incontrarlo di persona ma la variante Omicron gli ha impedito di volare in Italia. Sarebbe dovuto arrivare a Venezia per portare la sua testimonianza a quaranta Ministri della Giustizia europei riuniti per il Consiglio d’Europa. Lo aveva fortemente voluto Marta Cartabia, la nostra Ministra della Giustizia, che riconosce in lui un simbolo dell’idea più alta e nobile della Giustizia Riparativa, quella che è capace di far camminare la società e di riparare i torti.
Lo intervisto in collegamento Zoom, ha una camicia a fiori come quelle che portava Mandela, parla con la freschezza di un bambino, mima gesti e suoni, ma la potenza del suo messaggio toglie il respiro.

Nelson Mandela, padre del Sudafrica post apartheid e Premio Nobel per la Pace 1993, nominò Sachs giudice della Corte Costituzionale Sudafricana

Il giudice Albie Sachs – ma quando lo sento la prima volta mi interrompe subito: «Quando non porto la toga per tutti sono Albie e basta» – ha costruito la seconda parte della sua vita sul concetto di vendetta mite, di vendetta gentile. Gli chiedo come sia nata questa idea potente che sembra una contraddizione di termini.
«Ero sdraiato in un letto di un ospedale di Londra, intorno alle quattro di notte mi sono svegliato, l’effetto degli antidolorifici era svanito, mi sentivo molto solo, molto triste, e anche se non ero molto credente, ho cominciato a cantare la canzone di un grande cantante afroamericano, Paul Robeson: “It’s me, it’s me o Lord, standing in the need of prayer. It’s me, it’s me o lord, standing in the need of prayer. It’s not my brother, it’s not my sister…” (Sono io, sono io o Signore che ho bisogno di preghiere. Sono io, sono io o Signore che ho bisogno di preghiere. Non è mio fratello, nemmeno mia sorella…”). Mi piango un po’ addosso. Mi riaddormento. Mi sveglio, sono di buon umore. Da quella notte il mio atteggiamento è cambiato completamente. Ne ho avuto la prova quando un giorno ho ricevuto una lettera, l’ho aperta con la sola mano che ho, e ho letto: “Non ti preoccupare compagno Albie, ti vendicheremo”. Vendicarmi? Ho pensato. Ma non possiamo tagliare braccia, non possiamo accecare le persone: è questo quello per cui stiamo combattendo? Se saremo liberi, se avremo giustizia, se otterremo lo stato di diritto, quella sarà la mia vendetta. Rose e gigli cresceranno dal mio braccio. Il tema di una vendetta mite continuava a tornarmi in mente. E poi è diventato il tema della mia vita: se scegli la vendetta vera allora sei come gli altri, la vendetta mite, invece, è molto più potente e ti rende molto più forte. Significa andare oltre il dolore, perché se sei pieno di odio, l’odio può ucciderti. È stato molto liberatorio per me. E così il tema della vendetta mite è diventato poi il titolo del libro che ho scritto e del film che hanno fatto sulla mia vita. Oggi lo stato di diritto è sempre più radicato nel mio Paese e questa è la mia vendetta».

La copertina del libro di Albie Sachs “The Soft Vengeance of a Freedom Fighter” (“La Vendetta Mite di un Guerriero per la Libertà”), edito da Souvenir Press Ltd

Il giudice Sachs, insieme all’arcivescovo Desmond Tutu, sarà anche artefice della Commissione per la Verità e la Riconciliazione, di quello scambio coraggioso tra riconoscimento dei crimini commessi e amnistia, grazie alla quale il Sudafrica riuscì a voltare pagina, a tenere elezioni democratiche e a chiudere la stagione dell’apartheid.
Ma della grande storia a cui ha dedicato la sua vita, chiedo a Albie di ricordare anche la parte privata e personale, di raccontare le conseguenze dei suoi gesti e delle sue scelte.

«Un giorno nel mio ufficio di giudice della Corte costituzionale del Sudafrica suona il telefono e dalla reception mi dicono: “C’è un uomo di nome Henri, dice che ha un appuntamento con lei”. Vado al cancello e mentre cammino sento battere forte il mio cuore. Bum, bum, bum, bum. Apro la porta e vedo Henri: alto e magro come me, ma più giovane, io lo guardo e lui mi guarda. Mi dice che stava per andare alla Commissione per la Verità a denunciarsi, a raccontare che era stato lui a organizzare la bomba nella mia macchina. Penso che non ci siamo mai conosciuti, non abbiamo mai litigato, che lui ha fatto quel che ha fatto non per passione, non per potere, ma semplicemente perché lui faceva parte di uno schieramento e io di un altro. Leggo nei suoi occhi che sta pensando “Questo è l’uomo che ho cercato di uccidere”, e io sto guardando l’uomo che ha provato a uccidermi. Andiamo nel mio ufficio e parliamo, parliamo, parliamo, parliamo. Si crea una connessione interessante tra noi due, lui mi dice con orgoglio che era bravo a scuola e all’università, mi racconta di come ha fatto carriera nell’esercito fino a diventare un alto ufficiale. E mi dice che è diventato l’assassino di grado più elevato, senza rendersi conto di quanto fosse strano vantarsi di questa sua bravura. E poi mi parla della bomba. Alla fine gli dico: “Henri, devo tornare a lavorare”, ci alziamo. Normalmente gli avrei detto “Arrivederci” e gli avrei stretto la mano. Invece gli dico: “Non posso stringerti la mano, va’ alla Commissione per la Verità, racconta quello che sai, forse un giorno ci rincontreremo”. Torniamo all’ingresso, lui non ha più quell’andatura da soldato che aveva quando è entrato, ora sembra una persona sconfitta, io poi quasi mi dimentico di lui».

Albie Sachs durante il suo intervento in streaming al Vertice dei Ministri della Giustizia del Consiglio d’Europa. Potete riascoltare le sue parole qui

«Passano sei mesi, sono a una festa di Capodanno, fa caldo in Sudafrica alla fine dell’anno. La musica è molto alta e sento una voce dire “Albie”. Guardo, è Henri, non ci posso credere. Ci spostiamo in un angolo per allontanarci dalla musica e mi dice “Sono andato alla Commissione per la Verità, ho raccontato tutto, e tu hai detto che un giorno…”. Ho teso la mia mano e ho stretto la sua. Quando è andato via era euforico. Io sono quasi svenuto. Qualche tempo dopo mi hanno raccontato che se ne era andato presto dalla festa, era tornato a casa e aveva pianto per due settimane. Non so se sia vero, ma voglio crederlo. Per me quello che conta davvero è che Henri ci abbia provato a fare i conti con le cose. Non perché gli ho urlato contro, né perché gli ho detto “Ti perdono” (non l’ho fatto, lui non ha chiesto perdono e io non ho detto “Ti perdono”), ma perché l’ho trattato come un essere umano. E sono contento che mi sia venuto a cercare. Sono contento che sia andato alla Commissione per la Verità. Il nemico era diventato una persona. Henri non è un mio amico, non gli chiederei di andare al cinema insieme, ma se io fossi seduto su un autobus o su un treno e lui si sedesse accanto a me, io gli direi “Oh Henri, come stai?”. Perché adesso viviamo nello stesso Paese. E per me quella è la vendetta mite. È molto, molto più potente della vendetta vera e della punizione. È un esempio di fiducia nella giustizia. Mi sento un po’ più libero, un po’ più liberato, a vivere nello stesso Paese del mio ex nemico».

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