Mancava solo un anno alla pensione e Jack, dopo averne passati quaranta a fare il pendolare con Manhattan, per lavorare come revisore contabile di una multinazionale, aveva un solo progetto nella testa: passare tutto il tempo che gli restava con sua moglie. Fu in quel momento che lei scoprì di essere malata. Jack non fece nemmeno in tempo a rendersene conto che lei non c’era già più. Rimase solo e senza nessuna idea di futuro. «Andare in pensione era il mio sogno, invece si trasformò in un incubo di solitudine e depressione». Tredici anni dopo Jack ha appena finito un giro della Sicilia durato quindici giorni, mi racconta che si è innamorato delle saline di Marsala, dei templi greci e di Taormina. Non c’è posto dell’Italia in cui non sia stato e sono pochi i luoghi del pianeta che non ha visitato. Scoprire il mondo è stata la sua medicina: 69 Paesi in dodici anni.
Ci sono mattine in cui la prima cosa che vedi ti ricorda quanta bellezza ci sia nel mondo. Ho aperto la finestra della stanza dell’albergo di Catania alle 5:34 e l’alba sul mare, dietro le palme, mi ha detto che sarebbe stata una giornata fortunata. Alle 6:30 ero seduto in aereo e il caso mi ha regalato come vicino di posto Jack e i suoi racconti. Io detesto il sedile centrale, non hai la vista dal finestrino e non hai la libertà di alzarti quando ti pare del corridoio: sei incastrato lì in mezzo. Avevo sperato che il posto 4D, accanto a me, rimanesse libero, ero stato quasi esaudito nel mio desiderio e stavo per spostarmi quando è salito l’ultimo passeggero e si è seduto proprio lì. Ho notato solo che aveva una camicia a scacchi, delle sopracciglia bianchissime e non capiva cosa gli dicesse lo steward che gli parlava in italiano. Poi mi sono addormentato. Mi sono svegliato perché servivano il caffè, c’era anche un cioccolatino.
L’uomo con la camicia a scacchi ha preso il suo cioccolatino e lo ha messo sul mio tavolino. L’ho ringraziato e gli ho chiesto da dove venisse: “New Jersey”. «Ho 78 anni e nelle ultime due settimane ho fatto tutto il perimetro della Sicilia, ieri sono salito sull’Etna e lo spettacolo di vedere il mare con i piedi nella neve è incredibile. Ti dirò una cosa strana, sognavo di venire in Sicilia dal 1972 quando ho visto il film “Il Padrino” con Marlon Brando. Mi sarebbe piaciuto capire come possano stare insieme un’isola bellissima e la mafia. Cinquant’anni dopo ho scoperto che un tour operator americano, oltre al giro classico dell’isola, offriva la possibilità di incontrare il figlio di un boss della mafia per capire come funziona il sistema. Così sono venuto e devo dirti che il racconto di quest’uomo, che ha preso da sempre le distanze dal padre, non è mafioso e parla un ottimo inglese, è stato davvero interessante». Gli chiedo se ricorda come si chiamasse. Scuote la testa: «Il nome non lo ricordo, ma era davvero un boss molto noto». Poi tira fuori un foglio dalla tasca interna del giubbotto rosso, è il programma del viaggio, mi fa vedere il nome della persona che ha incontrato – Angelo Provenzano – e mi guarda: «Non ricordo il nome del padre, ma dicevano che era veramente importante, lo hai mai sentito?».«Tutti in Italia conoscono il nome di quell’uomo, Bernardo Provenzano, l’uomo delle stragi e degli omicidi dei giudici più amati in Italia: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino».
Jack (ma il nome lo scoprirò solo quando ci saluteremo dopo l’atterraggio a Linate), resta un po’ in silenzio, forse si è reso conto che la mafia è una cosa un po’ meno filmica e romantica di quello che gli hanno raccontato, poi mi spiega di quanto ami l’Italia, tanto che c’è venuto cinque volte negli ultimi anni. «Ma non è solo l’Italia, io sono sempre in viaggio, ho già visitato 69 nazioni, più di un terzo di quelle che ci sono nel mondo, ma non lo faccio per collezionare bandierine ma per osservare le persone, per stare in mezzo alla gente, per non stare a casa da solo».
Jack è nato a Mumbai nel 1945, quando si chiamava ancora Bombay e in India c’erano gli inglesi, a 22 anni partì per New York con un permesso di studio per fare un master nel New Jersey e da allora quella è la sua casa. Negli Stati Uniti ha studiato, lavorato per tutta la vita nella stessa azienda, si è sposato e ha avuto due figli, un maschio e una femmina. «Lei ha studiato ad Harvard e oggi vive con la sua famiglia a Singapore, lui ha fatto un master alla Columbia University e ora lavora alla Ibm in Germania. Sono stati bravissimi, io non mi sarei mai potuto permettere di farli studiare in università così prestigiose, in cui la retta di un anno era superiore al mio stipendio, ma loro lo hanno fatto chiedendo un prestito in banca e restituendolo in pochissimo tempo».
Così quando è rimasto vedovo ed è arrivato il giorno della pensione si è trovato completamente solo: «Tra me e i figli e nipoti c’erano due oceani, sentivo un vuoto pazzesco. Un amico, per provare a tirarmi fuori da casa, mi ha chiesto se volessi andare con lui al bridge, io ho pensato al ponte, al George Washington Bridge, quello che collega il New Jersey con Manhattan, e non capivo che senso avesse. Lui si è messo a ridere e mi ha spiegato che era un gioco di carte».
In due anni Jack ha imparato così bene da diventare maestro professionista di bridge e si è trovato a giocare un torneo a Las Vegas in squadra contro Bill Gates: «Mi ha stupito molto, è un uomo davvero gentile e disponibile e mi ha stretto la mano quando l’ho battuto». Ma le carte non gli bastavano, quando tornava a casa si sentiva soffocare, aveva bisogno di cambiare aria. Così ha deciso di partire, il primo viaggio è stato di tre settimane: Norvegia, Finlandia e Svezia. Da quel momento non si sarebbe più fermato. Quest’anno, dopo la Sicilia, andrà con suo figlio una settimana sulla costa pacifica del Canada, in British Columbia, poi dopo l’estate tre settimane in Messico e prima di Natale in Costa Rica.
«Posso permettermi di girare il mondo perché sono solo, faccio una vita semplice e non spreco soldi, questa camicia e questi jeans avranno trent’anni, e poi anche quando viaggio sto molto attento. La più grande stupidaggine è spendere per alberghi di lusso: in un hotel ci passerai al massimo otto ore, ci vai per dormire, e allora contano solo due cose, un letto comodo e pulito e l’acqua calda per fare una doccia. Tutto il resto è inutile: perché devo pagare centinaia di dollari per avere una camera di design con dei rubinetti di un artista famoso che a malapena guarderò per tre secondi? I soldi preferisco spenderli per andare in un ristorante o a fare un’escursione. I miei figli vorrebbero aiutarmi economicamente ma non ne ho bisogno, allora mi dicono che non vogliono trovare nulla nel mio testamento, deve essere vuoto: “Papà spendi tutto, goditi la vita”».
Non posso non fargli la domanda che gli fanno tutti: qual è il posto più bello che ha visto nel mondo? «Sono tantissimi e ci sono luoghi meravigliosi in ogni Paese, ma se proprio devo scegliere rispondo: Machu Picchu, in Perù. Più dei posti e delle architetture a me piacciono le storie delle civiltà, i misteri, le atmosfere. E quel sito archeologico abbandonato in cima alle montagne a 3000 metri di altezza è l’emozione più potente che abbia incontrato nei miei viaggi. Qualcosa di simile l’ho provato solo a Petra, in Giordania, un luogo fuori dal tempo e dallo spazio».
E quello che ancora vuole vedere? «Il mio sogno sono i parchi africani, quelli che stanno tra Kenya e Tanzania, forse ci andrò nel 2024, per il mio compleanno dei 79. Mi sono lasciato una delle cose più belle alla fine. Penso anche spesso a dove andrei se decidessi di lasciare gli Stati Uniti e sono indeciso tra Irlanda e Nuova Zelanda».
Perché l’Irlanda? «Per i suoi spazi verdi, i suoi abitanti e la birra. Amo la birra scura Guinness e ho una mia piccola tradizione: in ogni Paese che visito, prima di ripartire, cerco un pub irlandese dove farmi una pinta».
Lo guardo e non dimostra assolutamente i suoi anni, glielo dico e mi interrompe: «Sai cosa mi tiene giovane? Un Gin Martini ogni sera dopo cena».
La cosa che gli piace meno dei suoi viaggi sono i voli aerei: «Mi annoio tanto, non mi piace guardare i film e purtroppo quasi tutte le compagnie hanno tolto il solitario di carte dagli schermi. Allora ripulisco il telefono dalle foto che ho scattato».
Mi racconta che ne fa pochissime e poi ne cancella la maggior parte: «Tengo solo quelle davvero più significative, non più di una ventina per viaggio. Se tu vai in un posto e cominci a fare le foto con il telefono sprechi il tuo tempo e non ti godi il momento, non ti metti in sintonia con il luogo e l’atmosfera. Preferisco vedere, immergermi nelle cose e emozionarmi. Mi tengo le immagini più belle nella testa e nel cuore. Dio mi ha regalato la memoria, devi tenere i ricordi vivi dentro di te. Se io penso a mia figlia a quattro anni, non ho bisogno di andare a cercare dentro un album, un computer o un telefono, mi basta chiudere gli occhi e me la vedo davanti bambina. Allora mi sento felice».
Stiamo per atterrare e gli chiedo se possiamo fare un selfie, mi dice che non li fa mai e non accetta di farli con degli sconosciuti: «Chi mi garantisce che tu non sia un truffatore o magari un trafficante di droga? Ma lo faccio volentieri perché la risposta ce l’ho: un narcotrafficante non sarebbe stato un’ora ad ascoltarmi e non mi avrebbe mai chiesto cosa abbia di così speciale Machu Picchu».