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24 Marzo 2020

A Saint-Nazaire il professore fa il postino

Anche la Francia fa i conti con l’epidemia. Le scuole sono chiuse e gli insegnanti cercano di non abbandonare i ragazzi. Yann Duval, vicepreside del Collège “Albert Vinçon”, recapita addirittura i compiti a domicilio
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Anche questa mattina, come tutte le mattine, il professor Yann Duval è andato a scuola, alla media pubblica di Saint-Nazaire, il Collège “Albert Vinçon”, 550 allievi tra gli 11 e i 15 anni e sessanta tra dipendenti e insegnanti. Ma da lunedì 16 marzo sono tutti a casa, “confinati” per le misure anti Covid-19, e lui è rimasto solo con un collaboratore nel grande edificio dello storico quartiere della Vecquerie. Dal 2013 Duval, 45 anni, due figlie (la più grande nella sua scuola), è principal adjoint, vicepreside. A lui è toccato il ruolo oggi più difficile: la vedetta in attesa del nemico invisibile che si spera non arrivi mai. E da qui scruta un orizzonte più inquieto dell’oceano che ha di fronte. Qui la Loira sfocia nell’Atlantico, riversando simbolicamente il malessere di un Paese che anche questa volta ha creduto di essere al di sopra di tutti. Come se il contagio potesse arrestarsi alla frontiera.

Locali chiusi a Parigi, foto di Bruno Manno

Ancora la sera di venerdì 6 marzo, Emmanuel Macron era andato a teatro tenendo per mano la moglie Brigitte. Al Saint-Antoine, X Arrondissement, dove da dicembre si dava con successo una pièce piuttosto leggera, la parodia di un presidente della République che, non riuscendo a pronunciare un discorso, finisce in cura dallo psichiatra. Il messaggio di Macron, invece, era chiaro: non chiudetevi in casa, uscite che la vita continua. Eppure Covid-19 aveva già sfiorato l’Eliseo: il ministro della Cultura, Franc Riestier, era appena entrato in quarantena. Ma ancora il suo collega alla Sanità, Olivier Véran, si diceva sicuro che la Francia, a differenza dell’Italia, sarebbe stata capace di «ritardare e ridurre» il contagio. Tra politici, giornali, chiacchiere di caffè, era tutto un distinguersi: noi qui, noi là, a differenza dell’Italie

Uno studente italiano dell’Università di Chambéry, Jacopo Romei, 23 anni, valdostano, mi ha raccontato che al rientro dalla settimana di vacanza per Carnevale gli avevano chiesto di mettersi in quarantena. Ma quando ha detto che non era tornato in Italia e ha mostrato il biglietto ferroviario usato per Parigi, gli hanno risposto che allora non c’era problema. Al di qua del Fréjus e del Mont Blanc niente virus?

Il professor Yann Duval è persona di squisita gentilezza e, quando lo chiamo per sentire come si vive il confinement in una regione ancora fortunatamente poco toccata da Covid-19, ma inaspettatamente colpita da tutte le restrizioni, per prima cosa esprime «vicinanza» a noi italiani, i «nostri cugini italiani». Nessuna malizia, sincera solidarietà. Duval è persona abituata a confrontarsi con il concreto dei problemi. «La scuola è chiusa da lunedì 16, come decretato dal presidente la sera del 12». Era giovedì ed Emmanuel Macron è comparso alle 20 in tv, per annunciare che l’epidemia stava arrivando. Il tono era drammatico – «è la più grave crisi sanitaria da più di un secolo» – ma tutte le misure di sicurezza erano rinviate e intanto si potevano tenere le elezioni municipali di domenica; tutti a casa da lunedì.

Il professor Yann Duval

«Quel venerdì – racconta Duval – noi eravamo tutti a scuola, insegnanti e ragazzi. È stata una giornata davvero particolare, bisognava organizzare tutto e non sapevamo niente. Ci siamo messi a raccogliere quante più informazioni possibili per tenere i contatti con i ragazzi e le famiglie. E-mail e telefoni, genitori, nonni, parenti, negozi frequentati. È in momenti come questi che ci si rende conto di quanto siano importanti i legami sociali che si annodano a partire da una scuola. La mia preoccupazione principale era che nessuno rimanesse escluso; ci stavamo preparando a una separazione fisica e al tempo stesso dovevamo sviluppare il massimo di intensità nei rapporti fra noi, intendo con i ragazzi e le famiglie, ma anche tra la scuola e gli insegnanti che non erano meno inquieti di loro».

E ne avevano ben ragione. Ancora giovedì, poche ore prima che Macron annunciasse l’imminente epidemia, il ministro dell’Éducation Nationale, Jean-Michel Blanquer, aveva escluso una chiusura generalizzata delle scuole: «Non è il nostro modello». Dal suo domicilio di “confinato”, il professor Andrea Manara, 39 anni, insegnante di francese al Collège “Dunoyer de Segonzac”, nella banlieue parigina di Boussy Saint-Antoine, conferma: «Quel giorno si sono moltiplicati i messaggi contraddittori. Allarmista il discorso di Macron, ma con rinvio della chiusura delle scuole a lunedì; la domenica urne aperte per le elezioni, ma contemporaneamente l’invito a non uscire di casa. È successo l’inverosimile, a Parigi era come se tutti si fossero dati appuntamento per l’ultimo bicchiere».

Nella scuola di Manara ci sono 900 ragazzi provenienti da estremi sociali: famiglie relativamente agiate, molti immigrati anche recenti in affido o famiglie dove nemmeno si parla francese. Una mixité tra classi, che è anche la ricchezza della scuola francese, ma in generale degrado strutturale e condizioni igieniche piuttosto precarie: «Nei bagni non c’era nemmeno il sapone per lavarsi le mani».

Anche nella scuola di Saint-Nazaire gli studenti arrivano da fronti sociali molto diversi: «Il 40 per cento benestanti – mi dice Duval – gli altri con origini sociali disparate. E questo è un problema perché non tutti hanno le stesse possibilità di accesso a Internet per seguire le lezioni, ricevere i compiti e mantenere i legami. Molti hanno la connessione soltanto via smartphone, che non è certo ideale. Alcuni non ce l’hanno proprio». Sono circostanze nelle quali il volontariato fa la differenza e qui si capisce che anche l’orgogliosa Francia, di fronte all’avanzare di un virus dal quale s’è illusa d’essere immune, deve far ricorso all’umiltà dei suoi servitori.

Le buste con i compiti del professor Duval

Il professor Duval – che dal 16 marzo passa circa dodici ore al giorno nel suo ufficio, spesso saltando il pranzo – mi ha raccontato che lui e il preside Marc Jalinier alla fine della giornata fanno i postini: mettono le fotocopie dei compiti in buste di carta, avendo cura di maneggiare tutto con i guanti, e, tornando a casa, le portano personalmente nei supermercati e nelle épiceries dove fanno la spesa le famiglie dei ragazzi senza connessione. Per ora sono una quindicina, ma aumentano ogni giorno. E come si fa? «Il faut tenir», dice Duval. Bisogna resistere. Et oui.

* Cesare Martinetti (Torino, 1954), giornalista dal 1976: “Gazzetta del Popolo”, Ansa, “la Repubblica”. A “La Stampa” dal 1986. Inviato, corrispondente da Mosca, Bruxelles e Parigi, vicedirettore. Due libri, “Il padrino di Mosca” (1995) e “L’autunno francese” (2007), entrambi editi da Feltrinelli.

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